Decine di navi gasiere (a fine ottobre ne sono state contate più di cinquanta) stazionano al largo delle coste europee. Aspettano che il prezzo salga, dopo le temperature miti generate (anche) da un autunno anomalo. Trasportano in massima parte metano liquefatto made in Usa: fino al 2019 l’Europa importava una quota di Gnl pari al 17% del fabbisogno e nel 2022 importa ben il 39%, trend in crescita ulteriore. Con costi decisamente più alti rispetto al gas russo proveniente dai tubi sottomarini e terrestri. Per Germania e Italia ciò significa un rischio più elevato di deindustrializzazione manifatturiera. Per le politiche ambientali un danno certo. Un dato per tutti: quest’inverno bruceremo legna, distruggendo foreste, come sta già avvenendo in Ungheria
L’analisi di LAURA CALOSSO

GNL. GAS NATURALE LIQUEFATTO. Usate questa sigla come codice, come password, e vedrete che vi aprirà la porta di tante verità, dalla guerra in Ucraina, all’inflazione a due cifre, al rischio di deindustrializzazione in Europa. Oggi, al largo dei porti europei ci sono tante navi cariche di gas liquefatto [leggi qui nota 1]. Aspettano. Cosa? La quotazione favorevole per vendere il loro carico. Già perché il prezzo d’acquisto del gas diventa certo solo al momento dello scarico in un impianto di rigassificazione. Fino a quando resta a bordo, può essere negoziato e partire nella direzione del “miglior offerente”. Possibile che il sistema regga un’incertezza simile in termini di tempi e costi? Lo vedremo quando le temperature scenderanno e la domanda di gas, ora contratta a causa di un ottobre decisamente caldo, e della chiusura di tante aziende impossibilitate a pagare bollette astronomiche, tornerà a crescere (gli esperti sostengono che l’attuale calo del prezzo sia dovuto solo a una parentesi per i motivi sopra citati). Inoltre, le navi aspettano perché i rigassificatori esistenti non bastano per trasformare gli enormi quantitativi di gas in arrivo. E quello di Piombino? Comunque vadano le cose, al di là dell’opposizione della popolazione, è una bugia dire che il rigassificatore di Piombino ci potrebbe salvare quest’inverno, perché l’arrivo della nave rigassificatrice non può avvenire prima della fine primavera 2023, essendo la nave impegnata (al mondo esistono solo 25 navi con caratteristiche idonee all’uso) [leggi qui nota 2].

Ma da dove arriva il gas presente sulle navi in attesa? Principalmente dagli Stati Uniti. La tecnica usata per l’estrazione del gas dal sottosuolo si chiama fracking, è estremamente inquinante, addirittura vietata in Europa. Fino al 2019 l’Europa importava una quota di Gnl pari al 17% del fabbisogno e nel 2022 importa ben il 39%, trend in crescita ulteriore. E i costi? Decisamente più alti rispetto al gas russo proveniente dai tubi sottomarini e terrestri. Come spiega Ispi, «la dipendenza da Mosca è un fatto strutturale e geografico: è molto più facile ed economico trasportare gas via tubo» [leggi qui nota 3]. Già. E dal punto di vista dell’inquinamento? Quale impatto avranno migliaia di navi cariche di gas sparse per gli oceani? In rete è disponibile un documento che riassume la cronologia degli incidenti più gravi avvenuti dal 1944 con le navi gasiere (Gruppo di Studio sul Terminale Off Shore di Livorno in collaborazione con Medicina Democratica). Incendi, morti, sversamenti in mare. Secondo la legislazione americana nessuna imbarcazione può navigare entro un miglio avanti, 2 miglia dietro e mezzo miglio su ciascun lato di una nave gasiera, ma nel Mediterraneo non esistono queste limitazioni. Infatti, il 15 novembre 2002, a est dello Stretto di Gibilterra, la nave gasiera Norman Lady entrò in collisione con il sottomarino nucleare U.S.S. Oklahoma City.
Inoltre, il 21 aprile 2005 il deputato americano Markey aveva affermato, in qualità di membro anziano del comitato di sicurezza interna, che gli impianti Gnl sono tra gli obiettivi più attraenti per i terroristi [leggi qui nota 4]. Persino Piero Angela, nel suo libro “La sfida del secolo” scrisse che «Una grande nave metaniera che trasporta 125 mila metri cubi di gas liquefatto a bassissima temperatura, contiene un potenziale energetico enorme. Se nelle vicinanze della costa per un incidente (o per un atto terroristico) dovesse spezzarsi e rovesciare in mare il gas liquefatto, potrebbe cominciare una sequenza di eventi catastrofici».

Qualcuno dirà: e comunque, meno male che gli americani ci vendono il gas (anche se a prezzi decuplicati rispetto a un anno fa), perché altrimenti rimarremmo senza, a causa della guerra ucraina. Ecco, siamo certi che il problema del gas consegua alla vicenda della guerra, rieplosa nel febbraio scorso con l’invasione russa, e non invece il contrario? Al proposito è illuminante un articolo apparso su “Repubblica” l’11 marzo 2014, proprio quando la guerra in Ucraina iniziava a palesarsi come un serio pericolo per la pace in Europa. Il titolo è di per sé esplicativo: “Vendere il gas americano all’Europa, l’idea di Obama contro il ricatto di Mosca” «I primi a lanciare l’idea sono stati i repubblicani Usa – dal presidente della Camera a Condoleezza Rice – forse perché notoriamente legati alla lobby petrolifera», scriveva il corrispondente da New York. «E dalla Casa Bianca la proposta rimbalza in Europa. Si tratta di concordare una strategia comune per togliere a Vladimir Putin la sua arma principale nella crisi Ucraina: il ricatto energetico […]. Ma per spezzare durevolmente il potere di ricatto di Mosca, l’America dovrebbe accelerare progetti controversi: il via libera all’export del suo gas e la conseguente costruzione di infrastrutture adeguate (impianti di liquefazione, terminal portuali). […] Tra le altre soluzioni per ridurre il potere di ricatto della Russia, vengono citati diversi progetti di gasdotti che potrebbero subire un’accelerazione: dalla Turchia, da Israele, dal Mar Caspio. Gli esperti avvertono, però: nessuno di questi progetti, incluso l’export di gas americano, ha tempi di realizzazione brevissimi» [leggi qui nota 5]. Ecco, forse oggi siamo proprio nella fase della “realizzazione” del progetto.
Da un lato gli americani meditano da tempo questa strategia per spezzare il legame energetico tra Russia ed Europa, e, in particolare, tra Russia e Germania, il Paese che ha dovuto accettare la fine del sogno energetico impostato sui gasdotti NordStream 1 e 2, che consentivano di avere gas a buon prezzo e di sviluppare un grande impero industriale (con robusto export verso la Cina, nemico numero 1 degli Usa); dall’altro lato l’Europa sembra essere stata colta alla sprovvista: la Germania, come l’Italia, a causa delle sanzioni alla Russia, rischia infatti la deindustrializzazione.

Insomma, al netto del groviglio geopolitico-gasiero — profondamente influenzato nel 2019 dall’azione di lobby ucraine del gas su membri del congresso americano, lobby preoccupate dall’apertura di NordStream2 a causa del quale avrebbero rischiato di perdere i ricavi per il passaggio del gas sotto il suolo ucraino [leggi qui nota 6] —, resta un fatto: questa transizione energetica accelerata dal gas russo a quello americano è di certo un danno per le politiche ambientali. Un dato per tutti: quest’inverno bruceremo legna, distruggendo foreste. A dirlo è la rivista “Politico”: in un articolo si sottolinea il rischio della distruzione fuori controllo dei boschi europei [leggi qui nota7], come sta accadendo in Ungheria, secondo quanto dichiarato dalla portavoce di Greenpeace Hungary. Il ritorno al fossile, motivato dalla guerra — ma forse deciso a prescindere contro tutte le dichiarazioni rilasciate in occasione delle conferenze sul clima —, prima o poi ci presenterà il conto. Peccato che a pagarlo non saranno i responsabili, bensì chi subisce le scelte, senza neppure vederle passare nelle aule dei parlamenti democratici occidentali. © RIPRODUZIONE RISERVATA