La strage di sette operatori dell’ente di beneficienza Wck (World Center Kitchen) uccisi ieri nella Striscia di Gaza dall’esercito israeliano aumenta la tensione militare in Medio Oriente e l’isolamento politico di Israele nell’opinione pubblica internazionale. Il Wck garantiva 170mila pasti caldi al giorno ad una popolazione ridotta allo stremo. Per il premier Netanyahu la colonna umanitaria dell’Ong sarebbe stata «colpita involontariamente», mentre non si è ancora spenta l’eco per l’altra strage delle settimane scorse attorno ai camion che distribuivano farina e pane nella Striscia. La “coventrizzazione” di Gaza, assediata da mesi dall’esercito israeliano, obbliga l’opinione pubblica globale ad interrogarsi sulle “radici storiche, religiose e politiche di un conflitto che appare inestinguibile”, come recita il sottotitolo dell’instantbook di Carlo Giacobbe “Il sogno di Sion”, un lavoro accurato svolto dal corrispondente dell’Ansa da Tel Aviv per anni e nostro collaboratore. Giornalista non ebreo, Giacobbe non nasconde il suo amore per Israele senza tacere la sua avversione per il premier dello Stato ebraico al governo con una minoranza dell’estrema destra ultranazionalista, suprematista ebraica e messianica
◆ La recensione di CESARE A. PROTETTÌ
► Il premier israeliano “Bibi” Netanyahu, con la “coventrizzazione” e i morti di Gaza, è riuscito nel capolavoro di alienare al suo paese l’empatia e la solidarietà raccolte nel mondo dopo il pogrom del 7 ottobre di Hamas contro una popolazione inerme. Ed è riuscito anche a far vacillare il sostegno, spesso acritico, degli Stati Uniti, come è successo il 25 marzo con il voto di astensione sulla risoluzione del Consiglio di Sicurezza che chiedeva il cessate il fuoco per il Ramadan e la liberazione degli ostaggi ancora in mano ad Hamas. «Ho la speranza che la risoluzione dell’Onu incida, perché se non incide sarà gravissimo», ha detto – evocando la crisi dei missili a Cuba – Vannino Chiti, politico di lungo corso, intervenendo, pochi giorni fa a Roma, al Circolo degli Esteri, alla presentazione dell’instant book di Carlo Giacobbe “Il sogno di Sion. Le radici storiche, religiose e politiche di un conflitto che appare inestinguibile” (Eurilink University Press, 2024). A parlarne con Vannino Chiti anche Alessandro Luzon, assessore ai rapporti istituzionali della Comunità ebraica di Roma, l’ex ministro degli Esteri e fondatore di Eurilink Vincenzo Scotti e il vicedirettore dell’Ansa, Stefano Polli nel ruolo di moderatore.
Carlo Giacobbe, per alcuni anni corrispondente dell’Ansa da Tel Aviv, è un giornalista, non ebreo, che non nasconde il suo amore per Israele, sbocciato quando era ventenne e mantenuto e rafforzato nel tempo. Non nasconde però neppure la sua avversione contro l’attuale premier di Israele come emerge chiaramente soprattutto nel terzo capitolo intitolato “L’incredibile sesto mandato come premier a Netanyahu”. «Purtroppo, nei 16 anni (quasi ininterrotti) di leadership della destra e poi dell’estrema destra suprematista messianica attualmente alleata di Benjamin Netanyahu – scrive Giacobbe – gli insediamenti ebraici in Cisgiordania sono aumentati a dismisura, mentre si sono acuiti gli attriti tra i palestinesi di Gaza e quelli dei Territori, amministrati dall’Autorità nazionale palestinese (Anp). Nel contempo i rapporti tra Israele e l’Anp sono tornati gelidi come al tempo dell’Olp di Yasser Arafat. Specie a Gaza, c’è una minoranza che comanda in modo assolutistico, dittatoriale, forte di un peso specifico molto superiore alla maggioranza della popolazione; che però, estenuata e intimidita dai miliziani islamici, oltre che in una notevole percentuale solidale con loro, non è in grado o non vuole opporvisi. Ora il pugno di ferro scatenato dal governo Netanyahu in seguito agli eccidi e ai rapimenti perpetrati dai terroristi islamici non può che far aumentare esponenzialmente le catene di odio e lo spirito di vendetta, sia interpalestinese sia, ancora di più, verso Israele».
«Sino a che l’offensiva a Gaza non sarà finita è probabile che Netanyahu resti al suo posto, anche se non si può escludere che possa essere avvicendato da un politico centrista, che nell’emergenza causata dal pogrom di ottobre ha accettato di far parte di un gabinetto di guerra, Binyamin Gantz». Ma intanto – scrive Giacobbe – Netanyahu un anno fa ha inserito nell’esecutivo ministri che hanno raccolto l’eredità del Kach, un movimento ultranazionalista e sovranista ebraico, messo fuori legge dalla Corte suprema di Israele nel 1971 e poi ripresentatosi all’elettorato dieci anni dopo, senza però raccogliere consensi significativi. «Grazie alla politica di Netanyahu – scrive l’autore – il Kach è tornato alla ribalta con denominazioni diverse ed è il partito più votato dagli occupanti degli insediamenti di Gerusalemme est e dei Territori, altra denominazione della Cisgiordania, il West Bank in inglese, che le destre amano designare con i nomi biblici di Giudea e Samaria. Gente che in spregio alle leggi commette sistematiche violenze e arbitrii verso i palestinesi, vorrebbe l’annessione totale di Giudea e Samaria, con la conseguente cacciata di tutti gli arabi dal “Grande Israele”, l’introduzione della pena di morte per gli arabi e la possibilità di ritirare la nazionalità agli arabi con passaporto israeliano.
«Talvolta – è la riflessione di Carlo Giacobbe – mi viene da pensare a una bizzarra analogia tra i due nemici storici. Benché per motivi e con presupposti di segno contrario, è come se le popolazioni israeliana e palestinese fossero state prese in ostaggio: una dal gruppetto di ministri suprematisti, tanto scomodi quanto necessari a Bibi per formare il governo più reazionario che il paese abbia mai anche semplicemente pensato di avere; l’altra in balia dei capi di organizzazioni che hanno dimostrato di sapersi tranquillamente alternare nel doppio ruolo di guerriglieri che combattono dei militari nemici (in questo caso Tsahal) e di terroristi tagliagole, come i peggiori assassini dell’Isis. Entrambi, allo stato dei fatti, si stanno allontanando sempre di più dall’ipotesi di un compromesso con l’altro».
Giacobbe scrive di trovare «del tutto campato in aria (o pretestuoso o ingenuo o tutte queste cose insieme) insistere nel rivendicare diritti di primogenitura su realtà geopolitiche che risalgono alla notte dei tempi, prima della storia, e che oggi, come un secolo fa, non hanno senso. Certo, ora sarà ben difficile ridurre a zero vecchi contenziosi, ingigantiti e lievitati dalle stragi di ottobre e dalla guerra scatenata contro Gaza». «Molto si discuterà, anche in Israele – aggiunge Giacobbe – sulla effettiva convenienza di distruggere Gaza senza avere la certezza di eliminare i capi islamici e, indipendentemente da ogni valutazione umanitaria, con costi politici molto alti in termini di perdita di favori nell’opinione pubblica globale». D’altra parte il premier sa che «è solo una questione di tempo e che appena la crisi attuale sarà superata riprenderà l’attività di un’opposizione sempre più agguerrita e dell’opinione pubblica che non lo stima più».
Su alcuni punti Giacobbe pensa di poter avanzare ipotesi che sembrano più plausibili di altre. Eccole, in ordine di importanza:
a) Un conflitto internazionale che chiami in causa le grandi potenze (Usa, Russia, Cina) o anche la potenza regionale (Iran) sembra assai improbabile. Al solito, i palestinesi servono da specchietto per le allodole o, se si preferisce, da diversione per stornare l’attenzione planetaria da altri scenari, come, in questo caso, la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina, o l’interesse dell’Iran a fare naufragare l’allargamento all’Arabia Saudita degli Accordi di Abramo.
b) Le operazioni militari nella Striscia di Gaza dovrebbero cessare entro l’anno, anche per la fermezza con cui il presidente americano Biden sta spingendo su Israele (non solo sul capo del suo governo) perché metta fine alla “coventrizzazione” di Gaza.
c) Nel resto dei Territori palestinesi, Cisgiordania e Gerusalemme est con zone limitrofe, la popolazione araba è difficile che contempli di entrare nell’agone. Sia per lo sfaldamento (ma non annientamento) delle dirigenze dei movimenti islamici sia per un probabile passaggio di mano al vertice dell’Anp. Per lo scadimento dei rapporti con Israele, per motivi anagrafici e per l’erosione di prestigio e quindi di leadership, Abu Mazen non dovrebbe restare ancora a lungo alla presidenza.
d) In Israele l’amministrazione di Bibi Netanyahu dovrebbe avere se non i giorni le settimane contate, non appena nello Stato ebraico sarà tornata la “normalità”.
e) Tra le ipotesi che circolano da tempo, un nuovo leader in Cisgiordania – e chissà, forse anche a Gaza una volta che l’area devastata dai bombardamenti israeliani sarà in qualche modo recuperata – potrebbe essere Marwan Barghouti. Figura estremamente popolare tra i palestinesi, è stato a capo degli attivisti delle due intifade e di uno dei bracci armati di al-Fatah, i Martiri di alAqsa. È detenuto in Israele dal 2002, con condanne al carcere a vita per aver diretto o comunque ordinato azioni armate che Israele considera omicidi politici. Una parte importante dell’opinione pubblica israeliana ha chiesto più volte la sua messa in libertà, a favore della quale si sono dichiarati molti fori politici dell’Ue.
Cinque punti sui quali si può concordare o no. Ma, come ha scritto nella prefazione il prof. Sergio Della Pergola, professore emerito di Studi ebraici contemporanei all’Università Ebraica di Gerusalemme (che ha insegnato in oltre 100 università nel mondo), il libro resta «un richiamo a essere informati, trasparenti e onesti. Un richiamo di cui si sente grande necessità in questi giorni dolorosi per Israele e per tutta l’umanità». © RIPRODUZIONE RISERVATA