1945: un’anziana abbraccia con gratitudine un soldato americano per la liberazione dell’Italia dal nazifascismo. (Photo di Three Lions/Getty Images)

I deportati tornarono a casa e trovarono con le redini in mano, al loro stesso posto, marescialli, giudici, funzionari che avevano fatto carriera sotto il regime mussoliniano e che si erano riciclati nell’Italia repubblicana. Quella nata dalla Resistenza che, non avendo a disposizione nessun’altra classe dirigente che questa, l’aveva assorbita, anche se fascista fin dentro al midollo, poco pentita, poco cambiata. L’Italia − scriveva Pasolini − non ha mai avuto una «grande Destra», perché «ha potuto esprimere solo quella rozza, ridicola, feroce destra che è il fascismo». Quella che, in doppiopetto o in tailleur, indossando colori pastello, rossetti o sorrisi smaglianti, governa ancora oggi questo Paese. E così anche questo 25 aprile resta figlio di un’Italia che non ha voluto fare i conti con le asprezze della propria storia tragica


 ◆ L’articolo di ALFREDO T. ANTONAROS

«Il 25 aprile è solo per ricordarci che il fascismo non è mai morto. Che vive in mezzo a noi. Che la resistenza continua», diceva un mio zio. Aveva passato due anni da deportato in Germania. Caduti fascismo e nazismo era tornato a casa a piedi. Pesava 40 chili in meno. A casa aveva trovato quasi tutti i fascisti che comandavano prima. Erano tutti, più o meno, allo stesso posto. Anche il maresciallo dei carabinieri – quello che l’aveva tormentato per anni perché non aveva preso la tessera del fascio − era ancora lì, in paese, a fare ancora il maresciallo. Poi c’era stata la Costituzione, ma mio zio legge sul giornale che presidente della Corte Costituzionale è quel Gaetano Azzariti che prima, con Mussolini, era Presidente del Tribunale della Razza, corte che, alla lontana, era legata al fatto che l’avevano poi spedito in Germania. E legge che sta cosa di Azzariti va bene anche a Togliatti, a Nenni, a De Gasperi che non avevano mai fatto alcuna obiezione. 

Marcello Guida (al centro), questore di Milano durante la strage di Milano del 12 dicembre 1969

Poi, quando Pinelli viene suicidato in questura nell’ufficio di Calabresi, mio zio legge che il questore di Milano è quel Marcello Guida che dirigeva le colonie penali dove erano stati confinati Pertini, Spinelli, Ernesto Rossi e centinaia di altri antifascisti. Allora mio zio si informa meglio. È allora che scopre che c’è un’intera classe dirigente che è la stessa che aveva le redini in mano anche prima del 25 aprile del ’45. Frotte di magistrati, poliziotti e funzionari che avevano fatto carriera sotto il regime e che si erano riciclati nell’Italia repubblicana. Quella nata dalla Resistenza che, non avendo a disposizione nessun’altra classe dirigente che questa, l’aveva assorbita, anche se fascista fin dentro al midollo, poco pentita, poco cambiata. 

Del fascismo mio zio temeva soprattutto il suo odio verso i più deboli, verso i diversi, i più fragili. Poi c’erano state le stragi, gli attentati, la P2. «Io so i nomi del ‘vertice’ che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di ‘golpe’, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli ‘ignoti’ autori materiali delle stragi più recenti. […] Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ‘68», aveva scritto Pier Paolo Pasolini il 14 giugno 1974 sul “Corriere della Sera”. L’anno dopo fu zittito per sempre. Quando anche mio zio morì conservava ancora nel portafoglio un ritaglio di giornale dove Pasolini scriveva che l’Italia non ha mai avuto una «grande Destra», perché «ha potuto esprimere solo quella rozza, ridicola, feroce destra che è il fascismo». Che è anche quella che, in doppiopetto o in tailleur, indossando colori pastello, rossetti o sorrisi smaglianti, governa ancora oggi questo Paese.

A sinistra, partigiani garibaldini in piazza San Marco a Venezia nell’aprile 1945; a destra, 25 Aprile oggi e sempre

Anche questo 25 aprile resta dunque figlio di un’Italia che non ha voluto fare i conti con le asprezze della propria storia, che per settant’anni si è auto-assolta dalle responsabilità del fascismo e che ha rifiutato di fare i conti con il suo passato. Ci resta, come mi ricordava mio zio, la volontà di resistere contro un pensiero che è orrendo soprattutto per il suo odio verso i più deboli, verso i diversi. I più fragili tra noi. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Scrittore di romanzi, drammaturgo, sceneggiatore di film, saggista, direttore di teatro, autore e conduttore tv. Nei suoi romanzi centrale è il tema dell’esilio. Nei suoi saggi si è occupato in particolare dell’evoluzione sociale e culturale dell’alimentazione.