Qui in alto, quel che resta del palazzo in cui viveva questa bambina di Gaza; sotto il titolo, pattugliamento della coalizione occidentale nel Mar Rosso

Il gruppo ribelle yemenita filoiraniano ha rivendicato lunedì 19 febbraio un nuovo attacco ai danni di una nave mercantile registrata nel Regno Unito, colpita al largo dello Yemen. L’equipaggio ha dovuto abbandonare la nave. Lo stesso giorno l’Unione Europea ha dato il via libera alla missione navale Aspides per tutelare la libertà di navigazione nel Mar Rosso. L’operazione sarà guidata dall’Italia. Aspides – ha specificato Bruxelles –  è un missione di autodifesa e gli Houthi saranno colpiti solo se le navi saranno attaccate. La crisi nel Mar Rosso ha diminuito il traffico su nave da e per il Canale di Suez del 42%, ha aumentato la percorrenza delle merci per un totale di 20 giorni rispetto al tempo medio di una settimana, impatta totalmente sui nostri grandi porti commerciali (Genova, Gioia Tauro, Trieste), dirottando il traffico lungo la direttrice atlantica fino a Rotterdam, ha aumentato il costo di affitto dei container nel movimento commerciale Italia-Cina del 114% (da 2.222 a 4.178 dollari a tratta). Nel frattempo, nella capitale dello Yemen, cinque milioni di persone sono andate in piazza ripetendo il mantra della milizia (“Morte all’America, morte a Israele”). E a rimetterci da otto anni è anche il popolo yemenita sotto le bombe saudite e americane


◆ L’analisi di LAURA SILVIA BATTAGLIA

A Gaza dopo un bombardamento israeliano come risposta al pogrom di Hamas del 7 ottobre 2023

Il rischio è che si vada avanti senza sosta. Almeno fino al cessate il fuoco in Gaza, tanto atteso dai gazawi e dai Paesi arabi, quanto escluso dal governo israeliano, nonostante varie proposte di mediazione siano arrivate da Stati Uniti e Qatar e la Corte Penale Internazionale abbia chiesto dei chiarimenti sulla condotta della campagna di guerra contro Hamas. Nel frattempo, assistiamo all’allargamento del conflitto mediorientale al Mar Rosso: una conseguenza che non era né imprevedibile né impossibile ma che sta allarmando tutti i Paesi europei. Era prevedibile perché, nella conferenza di Riad dello scorso 23 ottobre – conferenza avvenuta in contemporanea all’omologa di Parigi – la Lega araba a guida saudita e altri attori regionali, incluso l’Iran, avevano discusso la proposta di boicottaggio verso Israele di beni mercantili e soprattutto di idrocarburi. La proposta – avanzata dall’Iran – per quanto avesse avuto un’approvazione morale, non ha incontrato il voto dei Paesi del Golfo, con Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita in testa, molto preoccupati di toccare interessi economici personali, di infastidire gli alleati americani (Arabia Saudita) e di spingersi alla negazione degli accordi di Abramo appena firmati (Emirati Arabi Uniti, Bahrein). Dunque, non se n’è fatto nulla. 

Ma la rabbia, il senso di abbandono e d’ingiustizia nell’opinione pubblica del mondo arabo, nei confronti dell’immobilismo della cosiddetta comunità internazionale sulla furia reattiva di Israele verso i gazawi, era così montante che qualcuno avrebbe dovuto (e potuto) fare qualcosa. Così, una settimana dopo, la milizia yemenita filo-iraniana degli Houthi, che si era già fatta sentire nel Mar Rosso il 19 ottobre, con un primo attacco a navi battenti bandiera israeliana, ha lanciato un missile verso la città israeliana di Eilat il successivo 9 novembre. Le due azioni sono state intervallate da attacchi di minore entità, via aerea, con droni, verso target israeliani (navi e obiettivi di terra), inclusi un paio di tentativi falliti, ai danni dell’Egitto, nelle aree di Taba e Nuweiba. Da quel momento la tensione si è fatta palpabile, fino ad una escalation, in quantità e qualità,  che ha coinvolto mercantili americani e indiani nel Mar Rosso, con il successivo ingaggio delle Marine americana e britannica a difesa degli obiettivi degli Houthi.  

Gli effetti di un bombardamento dell’Arabia Saudita nello Yemen nel 2015

Dall’azione sul mare, considerata la recrudescenza della milizia yemenita e la continuità degli attacchi, si è passati a una missione concordata: il 12 gennaio scorso, Usa e Regno Unito, insieme a Canada, Paesi Bassi, Australia e Bahrein tra gli altri, hanno costituito una Coalizione che ha provveduto in una notte a bombardare 18 target militari Houthi su suolo yemenita (12 nella capitale Sana’a, tre nella città portuale di Hodeida, due in Taiz, uno nel governatorato di Hajja). Gli stessi alleati, poi, allargati ad altri Paesi Nato, come l’Italia in posizione leader, hanno attivato la missione “Aspides”, che rafforza una struttura già esistente di pattugliamento e protezione della libera navigazione nel Mar Rosso (missione “Emash Agenor”) ma che, adesso, ha funzioni di difesa militare con licenza “di uccidere” in caso di attacco Houthi su mercantili o navi da guerra della Coalizione stessa. In tutto ciò, due Navy Seals americani hanno perso la vita in una missione sottomarina di 120 uomini, partita da Gibuti e congiunta con i britannici, per boicottare un dhow (caicco) somalo che riforniva gli Houthi di supplies tecniche iraniane (componentistica di precisione per differenti vettori, come Gps montabili su corvette quanto su droni) ma gli Houthi non hanno diminuito gli attacchi né l’intenzione di non organizzarne altri. 

Nel frattempo, nella capitale dello Yemen, cinque milioni di persone sono andate in piazza ripetendo il mantra della milizia (“Morte all’America, morte a Israele”) e non è stato imposto da alcuna autorità internazionale, compresa la Corte di Giustizia dell’Aja, il cessate il fuoco a Gaza. Potrebbe esserci uno spiraglio di distensione tra Hamas e Israele con uno scambio mirato di prigionieri/ostaggi ma nulla è garantito, specie considerata l’apertura di altri fronti collaterali in contemporanea ai principali: l‘Iran ha bombardato basi americane in Iraq, un supposto covo del Mossad in Kurdistan e ha colpito anche un obiettivo in Pakistan, altro Paese formalmente fiancheggiatore degli Stati Uniti. Non potrebbe andare peggio di così, soprattutto per l’Europa, dicono i media e gli analisti. La crisi nel Mar Rosso ha diminuito il traffico su nave da e per il Canale di Suez del 42%, ha aumentato la percorrenza delle merci per un totale di 20 giorni rispetto al tempo medio di una settimana, impatta totalmente sui nostri grandi porti commerciali (Genova, Gioia Tauro, Trieste), dirottando il traffico lungo la direttrice atlantica fino a Rotterdam, ha aumentato il costo di affitto dei container nel movimento commerciale Italia-Cina del 114%, facendo salire il costo di un container da 2.222 dollari a 4178 per una sola tratta. Le società degli armatori sono preoccupate per i rischi d’impresa e le perdite commerciali, mentre alcuni carichi di beni agricoli già inviati per il Golfo da Piemonte e Toscana, e destinati ai ristoranti di Dubai, marciscono, avendo cambiato rotta per circumnavigare l’Africa, utilizzando il Capo di Buona Speranza. Su questo traffico commerciale iniziano ad avvantaggiarsene le navi battenti bandiera cinese, lasciate in pace dagli Houthi in virtù della storica relazione commerciale tra Cina e Yemen anche ai tempi del governo del presidente yemenita Ali Abdullah Saleh, mantenuta con intelligenza sul Nord dello Yemen anche con gli Houthi e con il più grande e potente alleato iraniano. 

Nello Yemen il collasso economico e la devastazione di sistemi e servizi essenziali hanno ridotto la popolazione in condizioni disperate: più di 11 milioni di bambini su oltre 21 milioni di persone colpite hanno bisogno di assistenza umanitaria, mentre 4,5 milioni restano sfollate nel paese

In tutto questo, salta all’occhio il paradosso più grave: Ansarullah (questo è il nome del movimento della famiglia al-Houthi), una milizia violenta e settaria, ha riportato il Nord dello Yemen a uno Stato pre-moderno e che taglieggia i suoi “cittadini” con metodi degni delle mafie mediorientali (controllo del mercato nero, taglie su esercizi commerciali, razzie temporanee a fini rieducativi, arresti di imprenditori per ottenere il controllo del loro fatturato, educazione militare dalle scuole elementari, leggi per impedire il controllo delle nascite, limitazione del movimento e della libertà delle donne). Oggi Ansarullah diventa eroe dell’epoca, osannata dalle opinioni pubbliche – anche occidentali – e dai vecchi nemici – anche i sauditi – che vedono negli Houthi i paladini della difesa della verità e di un popolo a rischio genocidio (i palestinesi, già morti in più di 30mila). Un altro popolo, gli yemeniti, già costretti alla fame, alle malattie, a un blocco di beni umanitari, medici e commerciali da otto anni – da sette almeno sotto le bombe saudite – ritornano sotto le bombe, stavolta americane. E vedono diminuita ulteriormente la loro capacità di sopravvivenza, a causa delle sanzioni Usa che listano gli Houthi tra le organizzazioni speciali di “terrorismo globale” e dunque impediscono agli stessi anche l’importazione e il commercio di beni nelle aree a loro controllo. In Italia diremmo cornuti e mazziati. Forse una condizione assai peggiore della nostra, se confrontata a cinque giorni in più per la consegna di un pacchetto Amazon dalle nostre parti e un (ancora del tutto ipotetico) aumento annuale in bolletta del gas di circa 200 euro. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Giornalista professionista freelance e documentarista, lavora come reporter in aree di crisi dal 2007 ed è conduttrice e autrice per Rai Radio 3. Specializzata in Medio Oriente, con particolare focus su Iraq e Yemen, ha lavorato dal 2012 al 2015 come corrispondente da Sanaa (Yemen) per l’agenzia video-giornalistica americano-libanese Transterra Media. Collabora con media stranieri (The Washington Post, Al Jazeera English, Al Jazeera Arabic, TrtWorld, Cgtn, Rsi, Index on Censorship, The Fair Observer, Guernica Magazine, The Week India) e italiani (fra gli altri, Rainews24, Tg3 Agenda del Mondo, Sky Tg24, Tv2000, Radio Popolare, Radio in Blu, Radio24, Avvenire, La Stampa). Ha girato, autoprodotto e distribuito dieci documentari, tra i quali Yemen, nonostante la guerra, prodotto Ga&A nel 2019 e acquistato da Rai Doc, Zdf, Al Jazeera Arabic. Il film è uno spaccato nella vita dei civili yemeniti in guerra. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello Debole e Giornalisti del Mediterraneo. Dal 2007 insegna in diverse istituzioni italiane ed europee, compreso l’Istituto Reuters all’Università Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (Becco Giallo, gennaio 2017), tradotto in quattro lingue