Il riacutizzarsi del conflitto israelo-palestinese, dopo la strage di Hamas nei kibbutz del 7 ottobre e i bombardamenti a tappeto di Tsahal nella Striscia di Gaza, ripropone la domanda più importante posta qualche decennio fa da Edgar Morin, filosofo planetario dell’umanesimo rigenerato, ebreo sefardita e cosmopolita: «come integrare senza disintegrare?». È la domanda soffocata oggi dal ferro e dal fuoco che divampa nuovamente tra il Giordano e il Mediterraneo nell’antica nuova terra, che la politica ha rinunciato a porsi e che la cultura non può eludere, per non cedere a tutte le «forze barbare e cieche che contendono ancora il dominio del pianeta». Tanto più se le propaggini di quel fuoco arrivano fino a Zerocalcare e al “Lucca Comics”
◆ L’articolo di ANNALISA ADAMO AYMONE
► Era il 212 d.C. quando l’editto di Caracalla accordò la cittadinanza romana a tutti gli abitanti di un impero che appariva l’intero mondo ad un imperatore, che sognava di essere “Grande” almeno quanto Alessandro. Si realizzava così quella che oggi potrebbe essere considerata un’utopia, cioè l’idea di riconoscere la cittadinanza planetaria, garantendo tutti i diritti terrestri, come più volte ipotizzato dal filosofo ‘planetario’ Edgar Morin. Di tal ché far sorgere una geopolitica del pianeta, non più centrata sugli interessi delle nazioni e degli imperi, decentrata e subordinata agli imperativi associativi a guida Onu, dopo il 7 ottobre e alla luce di tutte le «forze barbare e cieche che contendono ancora il dominio del pianeta», potrebbe essere quella ‘rivoluzione copernicana’ che nel 1543 fece cominciare l’Era planetaria.
Allora, infatti, se da un lato l’Europa non era più il centro del mondo, dall’altro la Terra non era più al centro del cosmo secondo il ‘De revolutionibus’ di Copernico, che assunse nella cultura rinascimentale un ruolo cardine nella storia della scienza della prima età moderna. Ironia della sorte venne pubblicato nel 1543 a Norimberga, proprio la città tedesca dove – poco più di quattro secoli dopo – si sarebbe svolto il processo agli esponenti del regime hitleriano accusati di cospirazione contro la pace, di crimini di guerra e contro l’umanità, facendo proprio a Norimberga le prove generali di quella che sarebbe diventata successivamente la ‘giustizia penale internazionale’ consacrata con l’istituzione nel 1945 della Corte internazionale di Giustizia, meglio nota come Tribunale internazionale dell’Aia, che è il principale organo delle Nazioni Unite per l’appunto.
Di fronte al riaccendersi del conflitto arabo-israeliano le parole di Edgar Morin, filosofo planetario dell’umanesimo rigenerato, dell’ebreo sefardita e cosmopolita con più di cento anni di vita, contenute in vari testi − ma principalmente in due vecchi saggi ‘L’Unité de l’homme’ e ‘Terre-Patrie’ −, rimettono in evidenza non solo che l’associazione umana cui aspirare non può «fondarsi su un modello egemonico dell’uomo bianco, adulto, tecnico, occidentale ma deve al contrario rilevare e risvegliare i fermenti di civiltà femminili, senili, multi-etnici, multi-culturali…». Ripropongono anche la domanda più importante: «come integrare senza disintegrare?». Edgar Morin non ha dubbi, «ovunque preservare, estendere e coltivare l’unità» ma nello stesso tempo «ovunque sviluppare la diversità», favorendo il più possibile il meticciato proprio come fecero già i romani.
Come accade normalmente nella creazione artistica, che si nutre di «influenze e di confluenze», si pensi ad esempio al flamenco e allo stesso popolo andaluso che è il prodotto di interpretazioni arabe, ebraiche, spagnole, il meticciato. Si pensi anche al jazz afro-americano oppure al rock nelle sue varie sfumature che “acclimatatosi” in tutte le lingue ha preso ogni volta una diversa identità nazionale. Nella originaria visione creatrice dello Stato di Israele Theodor Herzl, che nel 1902 pubblicava un’opera rivoluzionaria, scritta nella sua lingua madre aveva una concezione molto simile a Caracalla e ad Edgar Morin piuttosto che alle repressive politiche che taluni hanno poi messo in atto in questo magnifico paese.
“Altneuland”, che in tedesco significa letteralmente “L’antica nuova terra”, è un manifesto quasi premonitore del padre del sionismo moderno, in cui si illustrava con afflato pionieristico una visione politica laica e democratica di uno Stato per il popolo ebraico nella Terra di Israele, ed in cui si sottolineava il valore irrinunciabile di una società aperta, «fondata sull’idea che noi siamo il prodotto comune di tutte le nazioni civilizzate. […] Sarebbe immorale se mai decidessimo di escludere qualcuno da questo progetto, a prescindere dalle proprie origini, opinioni e credenze politiche o religiose. […] C’è un unico modo per farlo: la più totale tolleranza». Oggi che nell’antica nuova terra due grandi popoli sono tornati a combattersi nella più feroce e disumana efferatezza; dove si sta consumando il più grande fallimento della comunità e della diplomazia internazionale; dove macerie e lutti trasmettono la più apocalittica immagine di “cittadinanza terrestre”, solo il mondo della cultura e della più alta diplomazia culturale può ricostruire “un’antica nuova terra” veramente meticcia.
In quest’ottica andrebbe analizzato il recente boicottaggio di Zerocalcare al Lucca Comics, generato dalla presenza del solo patrocinio dell’ambasciata di Israele. Un atto che porta a qualche riflessione, così come nelle intenzioni dello stesso Zerocalcare, perché se è giustissimo dare voce al popolo palestinese ed è comprensibile anche tutto lo sdegno in un momento in cui l’umanità sembra caduta in un burrone senza più speranza, la cultura non può perdere la sua funzione di ‘ponte’. Un ponte che riunisce due rive. Si slancia “leggero e possente” al di sopra del fiume, al di sopra di quel tragico burrone che le separa, perché non solo collega le due rive esistenti, ma fa sì che esse appaiano per quello che sono, solo ‘rive’ o solo ‘derive’, come in questo caso. In definitiva è solo il ponte della cultura che può opporle, unendole l’una all’altra. Tutto questo può essere sfuggito all’autore della bellissima serie animata andata in onda su Netflix dal titolo “Questo mondo non mi renderà cattivo”? Ai lettori l’ardua sentenza. © RIPRODUZIONE RISERVATA