Gli Stati Uniti eleggono il nuovo presidente: Trump o Biden? Le radici dello scontro di oggi affondano nei cinquant’anni precedenti. Lo smantellamento del Welfare e la sostituzione del pugno sul tavolo alla rule of law. Il ruolo della Silicon Valley, fintech, big pharma, agro-business e oligopolio mediatico. La crisi del costituzionalismo liberale e il collasso del sistema di checks and balances analizzato dal giurista europeo con cattedra californiana a intermittenza


L’analisi di UGO MATTEI, giurista

Me lo ricordo bene quel 1976. Avevo messo la sveglia per aspettare i risultati della sfida fra Jimmy Carter e Gerald Ford. Il primo mi piaceva molto: diceva cose di sinistra rispetto a Kennedy e rispetto a Johnson, che pure lo scavalcava a sinistra in politica interna, non era un guerrafondaio. Veniva dalla Georgia, stato rurale tradizionalmente razzista, ma sapeva sedurre con la sua mitezza, almeno aveva sedotto me. In verità, con la Presidenza Nixon, la svolta neoliberale era già iniziata. Carter non avrebbe saputo, forse potuto, opporsi alla marea montante che in Inghilterra aveva espresso la Thatcher e che quattro anni dopo lo avrebbe travolto, in apparenza per la questione degli ostaggi a Tehran, in realtà a causa della magistrale interpretazione dello spettacolo neoliberale interpretata da Ronald Reagan. 

Il primo debate cui avevo assistito in terra americana fu Reagan contro Mondale. A Yale, dove stavo studiando in quel periodo, come del resto in quasi tutti i campus della Ivy League, il tifo per lo sfidante democratico era da stadio, come lo sarebbe stato la volta dopo per Mike Dukakis, sconfitto da Bush padre nel 1988, quando già mi trovavo a Berkeley. In entrambi i casi non ci fu partita nel computo dei grandi elettori: Reagan vinse 525 a 13 mentre Bush 426 a 111.  

Per tutti i primi rampanti anni del neoliberismo, i cui apparati ideologici erano assai penetranti anche nei campus di élite, la stella giuridica statunitense era fulgida, e quel modello attirava consensi in tutto il mondo. In Italia per esempio, il processo penale “all’americana” fu introdotto nel 1988 e in Europa il “danno da prodotto”, altro cavallo di troia del diritto neoliberale volto a trasformare i cittadini in consumatori, fu oggetto di una direttiva del 1985. I giuristi italiani favoleggiavano di danni punitivi e di class action, mentre l’antitrust faceva il suo esordio nel capitalismo italiano con 100 anni di ritardo rispetto allo Sherman Act. Da noi la cultura giuridica più influente ma meno critica (Cassese, Amato, Bassanini, per citare i più famosi) esaltava le virtù dello Stato regolatore e delle privatizzazioni, che solo nei primi anni 90 dilapidarono 150 miliardi di asset pubblici. 

In generale la capacità critica dimostrata dalla cultura giuridica europea (per non parlare di quella latino-americana) per difendere i beni comuni fu limitatissima, anche perché la caduta del Muro di Berlino aveva prodotto la costituzionalizzazione del neoliberismo come pensiero unico, capace tuttavia di far correre il Pil e la borsa. Toni Blair e Bill Clinton furono gli eroi eponimi di questo processo in cui anche la “sinistra” divenne realisticamente e gioiosamente neoliberale. L’ideologia della rule of law, della democrazia, dei diritti umani, dello Stato regolatore e delle privatizzazioni pareva regnare sovrana sul mondo e in suo nome si intensificarono guerre imperialiste e neocoloniali bipartisan, sopratutto nei Balcani e in Medio Oriente.  

L’era Clinton, un Presidente capace di smantellare istituzioni del Welfare che avevano resistito perfino al reaganismo, si chiudeva con uno scandaletto sessuale che oggi fa quasi tenerezza. Il millennio si apriva con lo scontro fra Bush e Gore, infine deciso dalla Corte Suprema Federale con voto strettamente partigiano (cinque giudici di nomina repubblicana contro quattro di nomina democratica) che infliggeva un vulnus alla credibilità del giudiziario più celebre del mondo (rappresentato da tanti blockbusters di Hollywood, da Parry Mason a Erin Brockovich) e con esso di un sistema giuridico globalmente egemone (in Europa e Giappone fin dal piano Marshall e in America Latina addirittura dalla “Monroe Doctrine”).  

A partire dal 2001, con la disordinata reazione alle torri gemelle, all’egemonia sofisticata della rule of law si è sostituito il pugno sul tavolo di un esecutivo emergenziale, sempre più potente e disposto all’assassinio politico. Mi colpì, nel debate contro George W. Bush del 2004, il candidato democratico Kerry presentarsi con saluto e titolo militare («I am private Kerry here to serve!») promettendo agli elettori, che avrebbe inseguito ogni terrorista al fine di ucciderlo… 

Il celebre monito di Eisenhower, secondo cui il complesso militare industriale avrebbe distrutto la democrazia americana si era pienamente realizzato. La continuità fra Barack Obama e Dick Cheney (il malvagio vicepresidente di Bush, nonché patron della multinazionale della guerra Hallyburton, protagonista del recente film “Vice”) è stata impressionante. Il primo Presidente di colore, che tanto entusiasmo aveva generato fra i liberal dei campus universitari, ha ucciso coi droni in Medio Oriente, senza alcun due process of law, nemici o presunti tali dieci volte di più del suo predecessore. Egli è riuscito a scavalcare largamente a destra i repubblicani (Trump incluso) anche sui numeri delle deportazioni degli immigrati senza documenti. 

La verità è che, in questo quadro, il fenomeno Trump, non può essere analizzato con le categorie tradizionali di destra e sinistra perché, negli ultimi 20 anni, il mutamento strutturale del modello americano è stato tettonico, con il legame ormai indissolubile fra complesso militare industriale, Silicon Valley, fintech, big pharma, agro-business e oligopolio mediatico, cementatosi intorno al trasferimento del capitalismo sulla piattaforma Internet. 

Il modello della sorveglianza, le cui origini Shoshana Zuboff fa risalire al 2001 (“Il capitalismo della sorveglianza”, Luiss 2019), in realtà è ben più antico, perché sull’intelligence si è basato, per tutto il secolo breve, l’imperialismo statunitense. Per altro verso, come modello sociale dominante è più recente, perché il controllo dettagliato e qualitativo (camuffato dietro regolette ridicole a tutela della privacy) oggi si basa sulla diffusione virale dello smart phone, un fenomeno coevo la crisi del 2008, nonché sulla dipendenza generalizzata da social media, qualcosa di ancora più recente.  

Nei campus americani ben pochi avrebbero scommesso un centesimo sulla prima elezione di Trump e nella mia law school, io straniero californiano ad intermittenza, ero l’unico ad averlo previsto. Lo scostamento della sinistra liberal ed in generale delle élite di sinistra rispetto alla realtà sociale è totale, non solo da noi. 

È vero tuttavia che, almeno a livello di élite europee, con l’inizio del nuovo millennio ci si stia rendendo conto del nadir del costituzionalismo liberale made in the Usa (la cosiddetta democrazia statunitense), non solo per il sistema di checks and balances collassato, ma anche per le città invase di miserabili, le class actions ormai chiuse, i punitive damages limitati, le prigioni stracolme di Afroamericani, la polizia che uccide mille persone l’anno (contro meno di dieci in Germania, Francia, Italia). Tuttavia, la tendenza diffusa è quella di imputare questo stato di cose a Trump, ancora una volta interpretato dalle élite come una parentesi da chiudersi, un incubo oscuro, superato il quale il costituzionalismo liberale potrebbe tornare ad essere il miglior modello possibile. In questo errore si era già caduti con George W. Bush. Ed è purtroppo il peggior scherzo che il presentismo politico (ossia l’incapacità di leggere i processi in chiave di lungo periodo) può far correre. 

Lungi dal prender partito in quella che è − a mio giudizio − un’alternativa egualmente oscena, la questione interessante (e un po’ spaventosa) da discutere in tempi di pandemia è se sia Trump o Biden il migliore interprete del dispotismo occidentale, come definito da Gianfranco Sanguinetti (oggi noto anche come great reset), cosa che mi pare strettamente correlata con il rapporto dell’uno o dell’altro rispetto ai poteri economici globali dominanti, in particolare big tech. Ebbene, big tech, big pharma e l’intera industria mediatica tifano Biden (investendo miliardi nella sua campagna: si veda Elisabetta Grande su Micromega), cosa che dovrebbe almeno un po’ far riflettere. Così come dovrebbe far riflettere che tradizionalmente l’imperialismo più aggressivo derivi dai presidenti democratici e che, dopo il primo mandato di Trump in politica estera, una cosa può senz’altro dirsi: can che abbaia non morde, o almeno morde relativamente poco.

In queste condizioni il prestigio del diritto un tempo globalmente egemone non poteva che collassare. Ed è collassato. ◆

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Foto: in alto, Ronald Reagan e Walter Mondale nel 1984; al centro, Reagan illustra la sua reaganomic; Bush padre e figlio; in basso, il duello Hillary Clinton e Donald Trump nel 2016

Dal 1997 insegna diritto civile all’Università di Torino, diritto internazionale e comparato all’Università della California. Avvocato cassazionista, è stato fra i redattori dei quesiti referendari sui beni comuni del giugno 2011 e per due volte ha patrocinato il referendum presso la Corte Costituzionale. Fra i titoli pubblicati, ricordiamo “Beni Comuni. Un Manifesto” (Laterza 2011) che ha raggiunto l’ottava edizione, “Il saccheggio”, con Laura Nader (Bruno Mondadori, 2010), “Contro riforme” (Einaudi, 2013), “Senza proprietà non c’è libertà. Falso!” (Laterza, 2014). È curatore generale della collana Common Core of European Private Law (Trento Project) alla Cambridge University Press, ed editore capo della rivista Global Jurist. Il suo volume sulla proprietà privata, pubblicato nel 2001 (seconda edizione Utet 2014), ha ricevuto il Premio Luigi Tartufari dell’Accademia Nazionale dei Lincei consegnatogli dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. È presidente di “Generazioni Future Rodotà”