Fabrizio Gifuni e ovviamente il regista hanno saputo scolpire una figura alta e insieme complessa del presidente della Democrazia cristiana. E anche con Servillo come interprete di Paolo VI la qualità del racconto è rimasta elevata. Poi la scena, dopo il rapimento (ben girato), è stata principalmente di Cossiga che l’attore ha reso abbastanza bene nella sua nevrosi da senso di colpa. Anche nella ricostruzione di Bellocchio risulta evidente che la Dc nel suo complesso fu sorda ai tentativi (di Fanfani soprattutto poco evidenti sinora nel film di Bellocchio) di intessere una trattativa con le Br per uno scambio di prigionieri tramite la Croce Rossa
L’articolo di VITTORIO EMILIANI

LA PRIMA PUNTATA dello sceneggiato di Marco Bellocchio sul caso Moro ha confermato, soprattutto nella interpretazione davvero eccezionale di Fabrizio Gifuni, le aspettative. Anche sul lato degli affetti e dei rapporti familiari l’attore e ovviamente il regista hanno saputo scolpire una figura alta e insieme complessa. Finché è rimasto in scena e anche con Servillo come Paolo VI la qualità del racconto è rimasta elevata. Poi la scena, dopo il rapimento (ben girato) è stata principalmente di Cossiga che l’attore ha reso abbastanza bene nella sua nevrosi da senso di colpa. Certo io che ricordo bene quei giorni drammatici, abitando in cima alla Balduina e quindi piuttosto vicino in linea d’aria a via Fani, ho ancora vive nella memoria le immagini e gli episodi della pressoché totale impreparazione degli apparati di sicurezza e di contrasto al terrorismo. Preannunciato bene in questo caso dalla lezione di Aldo Moro alla Sapienza interrotta con violenza dagli Autonomi che erano il brodo di coltura sia delle Brigate Rosse che di Prima Linea.
Doveva essere un segnale molto allarmante da raccogliere subito e invece non lo fu da apparati di sicurezza del tutto impreparati e succubi di strategie soprattutto americane che mal si adattavano alla complessa realtà italiana e, nel caso, democristiana. Anche nella ricostruzione di Bellocchio risulta evidente che la Dc nel suo complesso fu sorda ai tentativi (di Fanfani soprattutto, poco evidenziati sinora nel film di Bellocchio) di intessere una trattativa con le Br per uno scambio di prigionieri tramite la Croce Rossa. Moro visse sempre più in solitudine quel sequestro e nelle numerose lettere espresse in modo angoscioso e durissimo quel suo isolamento. Ma sono elementi che valuteremo meglio stasera e domani sera.

Voglio ricordare come dato generazionale che esposi al mio ex direttore per tanti anni, Italo Pietra — già comandante generale delle Brigate partigiane dell’Oltrepo incaricate dal Clnai, Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, di liberare Milano prima che vi giungesse dalla Valsesia Cino Moscatelli seguace di Secchia — la mia idea che si dovesse richiedere con forza uno scambio per liberare Moro; dal comandante “Edoardo” mi sentii rispondere: «Ma i nostri partigiani anche sotto tortura da parte dei nazifascisti non parlavano». E invece Moro parlava tanto nelle sue lettere sempre più disperate (anche se, alla fine, non rivelò nulla di segreto). Si consolidò nei fatti un fronte della “fermezza” che accusava di “cedimento” ogni tentativo (nel caso Moro fu Fanfani, come detto, a provarci con la Croce Rossa) di trattare un possibile scambio di prigionieri. Ed era stato individuato anche un Br malato in prigione che poteva essere scambiato. Ma a quel punto fu evidente che la Dc, tranne alcune eccezioni, faceva muro al ritorno di un Moro che l’aveva ripudiata così clamorosamente. Né Cossiga sempre più prigioniero della sua nevrosi ebbe la lucidità e l’energia per opporsi a quella strategia e più tardi, non a caso, sarebbe andato a piangere a Torrita Tiberina sulla tomba dell’amico e maestro Moro. E cadde nel vuoto anche il grido di un Paolo VI vicino a morire «ai signori delle Brigate Rosse». Sarebbe scomparso nell’agosto di quello stesso anno a Castelgandolfo. Purtroppo per tutti. © RIPRODUZIONE RISERVATA