Qualche giorno fa il corsivetto di Vittorio Emiliani per la sezione “Frammenti di storia” di Italia Libera era dedicato al ruolo avuto da Amintore Fanfani nella nascita dei governi di centrosinistra e alla sua spinta riformatrice per le nazionalizzazioni. Ritorniamo oggi sulla figura di Amintore Fanfani pubblicando alcuni passi del libro “Senatore si rivesta” (Effigi editore), da poco presentato a Roma nella “nuvola” di Fuksas, alla Fiera “Più libri, più liberi”. Il volume, che ha per sottotitolo “Fatti, misfatti, curiosità, leggende nei palazzi del potere e dintorni” è opera del giornalista politico-parlamentare Mimmo Del Giudice, oggi ultraottantenne, che per molti anni, a partire dal 1969, ha seguito la Democrazia Cristiana e le sue molte correnti. E’ stato capo ufficio stampa di sette ministri democristiani e nel 1987 del presidente del Senato Giovanni Malagodi


◆ L’estratto di MIMMO DEL GIUDICE, da “Senatore si rivesta”

Il giornalista Indro Montanelli lo definì “a rieccolo” e “il misirizzi” nel senso che nella sua brillante carriera politica ha subìto più di una sconfitta, ma quando sembrava che fosse ormai fuori gioco, risorgeva come Venere uscita dalle acque e tornava più arzillo e deciso di prima. Amintore Fanfani, che nel suo partito, la Democrazia Cristiana, chiamavano “il cavallo di razza”, titolo che condivideva con un solo altro Dc, Aldo Moro”, è stato sempre un primo della classe. Ed è stato l’unico italiano a ricoprire la carica di presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

(…) Come tutti i leader della Dc, Fanfani era amato e odiato. Era a capo della corrente “Nuove Cronache”, un gruppo non numeroso, ma con più di un adoratore. C’era persino chi sostituiva il proprio nome di battesimo con quello del capo, Amintore. E chi lo adorava tanto che sosteneva che il Capo non sbaglia mai.

(…) È stato ritenuto il miglior presidente del Senato. Stimato dai senatori di tutti i partiti per il suo modo di non scontentare mai nessuno quando presiedeva la Conferenza del Capigruppo che doveva definire data e talvolta durata della discussione dei provvedimenti all’esame dell’assemblea. Molto ligio anche alla più semplice delle regole del Palazzo, un giorno sgridò un senatore democristiano che si era presentato senza cravatta. Il parlamentare, al quale Fanfani fece notare il non rispetto della regola, si giustificò dicendo che aveva problemi di respirazione e non poteva indossare niente che gli comprimesse la gola. Fanfani, inflessibile, gli replicò: per favore, portami un certificato medico che motiva questo tuo disagio. Altrimenti, imitandoti, altri senatori potrebbero dimenticarsi di indossare la cravatta. E io, essendoci un precedente, non posso dire niente. 

Amintore Fanfani presiede l’Assemblea delle Nazioni Unite a New York, l’unico politico italiano ad averlo mai fatto

A proposito di abbigliamento, Fanfani ci teneva molto a che i suoi collaboratori vestissero sempre in forma classica e poco appariscente. Un sabato il suo capoufficio stampa si presenta a Palazzo Madama con uno spezzato marrone nuovo nuovo e una bella cravatta in tinta. Al buongiorno del capoufficio stampa, Fanfani risponde: Buongiorno dottore, oggi va a caccia? 

Esigente, ma anche indulgente con senatori poco acculturati o “provocatori”, riprese il “senatur” Umberto Bossi il quale, citando per intero il partito da lui inventato, disse “Lega Nord per la secessione della Padania”. Fanfani precisò: indipendenza, non secessione. Egli abbozzò, e finì per correggersi. E a un senatore altoatesino che, sempre in aula, usò il termine Sudtirol, puntualizzò: in italiano si chiama Alto Adige. 

(…) Il solo traguardo da lui ambito che non gli è riuscito di raggiungere è stato quello di Presidente della Repubblica. E non perché non avesse i titoli, bensì per il mancato appoggio totale dei grandi elettori del suo partito. I cosiddetti “franchi tiratori”, alcuni per invidia, altri per risentimento personale, altri ancora perché su posizioni opposte pur nell’ambito dello stesso partito. La Dc, infatti, non è mai stata un partito molto omogeneo: era una sorta di congerie di più partiti, le cosiddette correnti, che si classificavano, per le loro posizioni politiche, di destra, centro e sinistra. Formalmente, i componenti delle correnti si facevano pure i complimenti tra di loro, ma, appena potevano, cercavano di “fregarsi” l’uno con l’altro. In questo ambito ogni occasione era buona per cercare di far prevalere la propria tesi o rifarsi di un risentimento trascinato da anni. In sostanza, danneggiavano non l’avversario politico, bensì, il più delle volte, il loro partito. Fu per questo motivo che, nel dicembre del 1971, alla prima votazione per l’elezione del Capo dello Stato, Fanfani candidato ufficiale della Dc, ci fu una scheda annullata sulla quale era scritto “nano maledetto non sarai mai eletto”. Ovviamente l’autore non si era firmato e mai nessun Dc ha mai rivendicato la titolarità.

(…) Quando Moro fu rapito dalle brigate rosse che massacrarono i cinque uomini della sua scorta, il 16 marzo 1978, Fanfani, allora presidente del Senato, fu l’unico degli esponenti di rilievo della Dc a non condividere la ferma posizione dei comunisti di nessuna trattativa con i brigatisti rapitori. Ed è stato l’unico al quale i familiari di Moro hanno consentito di partecipare ai funerali privati fatti dalla famiglia dello statista nel cimitero di Turrita Tiberina, dove fu sepolto. Nel primo anniversario dell’assassinio di Aldo Moro, il 9 maggio 1979, la Dc fece celebrare nella Chiesa del Gesù a Roma una messa di commemorazione. Vi parteciparono tutti gli esponenti di rilievo del partito. Fanfani, presidente del Senato, era seduto a fianco a Giovanni Leone. A un certo punto un uomo si avvicinò alle spalle di Fanfani e gli fece una tirata di orecchi che durò diversi secondi prima che venisse bloccato dal servizio d’ordine. Per qualche attimo si temette un attentato, ma il castigatore non era un terrorista, bensì un disturbatore delle manifestazioni della Dc che qualche tempo prima ci aveva provato anche con il segretario del partito, Benigno Zaccagnini. Ovviamente Fanfani ci rimase molto male, ma non si scompose più di tanto. Il momento era particolarmente solenne e non era il caso di dare in escandescenze. Anche se Fanfani non ha mai dato in escandescenze. 

(…) Fanfani è stato due volte segretario del partito, dal 1954 al 1959 e dal 17 giugno 1973 al 26 luglio 1975. Questo secondo mandato registrò più di un disastro per la Dc, dalla bocciatura del referendum per l’abolizione della legge sul divorzio (1974) al risultato negativo alle elezioni regionali (1975), quando il “fronte rosso” Pci-Psi strappò alla Dc, ben quattro regioni, il Piemonte, la Liguria, le Marche e il Lazio. Il che portò alla fine anticipata di un anno della legislatura. E quindi al voto nel 1976. Fanfani cercò in tutti i modi di tappare i “buchi” della sua segreteria. Ma non ci fu verso. Nel partito si era formata una maggioranza diversa che aveva deciso la sua defenestrazione. Il braccio di ferro decretò la sua sconfitta dopo un interminabile Consiglio Nazionale, che durò 3 giorni e 2 notti senza soluzione di continuità. Nelle prime ore della terza notte, il cavallo di razza, trasformato in puledro, dovette arrendersi. Anche perché frastornato dalle proteste degli autisti dei dirigenti del partito e dei membri del governo che inscenarono un’assordante strombazzata con i clacson delle loro auto: non ne potevano più di saltare pranzi, cene e ore di sonno. Quando era segretario del partito, un giorno il segretario dei giovani Dc si presentò a un appuntamento con alcuni minuti di ritardo. Fanfani, oltre a fargli una bella ramanzina, lo tenne in piedi per tutto il tempo dell’incontro, oltre un’ora.

(…) Fanfani è stato anche pittore. All’inizio delle ferie natalizie del 1970, quando i giornalisti parlamentari gli porsero gli auguri di Natale, la giornalista Gabriella Chantal Dubois si presentò con due quadri molto grandi fatti da lei e rivolgendosi a lui disse: “Presidente, ne scelga uno. Glielo voglio regalare”. Fanfani li squadrò tutti e due e poi, molto seriamente, le disse: “Gentile Signora, può regalarmeli tutti e due?” L’autrice, molto entusiasta, gli rispose: “Se mi dice dove li colloca, si”. E Fanfani: “Io, da nessuna parte. Li vorrei regalare uno a Pertini e uno a Moro”. La giornalista, offesa, disse: “Allora non gliene regalo nessuno”. E così fu.

I giornalisti sapevano bene che Fanfani non aveva grande simpatia per Pertini, allora presidente della Camera, che chiamava il mio dirimpettaio, e nemmeno per Moro. Con il quale è sempre stato in una specie di competizione, quella dei due cavalli di razza della Dc. L’episodio più eclatante si registrò nel 1971, quando i Dc dovettero indicare il candidato a succedere a Giuseppe Saragat alla Presidenza della Repubblica. I grandi elettori Dc (senatori, deputati, rappresentanti regionali) dovevano esprimersi sui due cavalli di razza. E Fanfani prevalse per pochissimi voti su Moro. Ma non fu mai eletto. Al Quirinale finì, dopo una interminabile maratona conclusasi la vigilia di Natale, il senatore a vita Giovanni Leone. (su gentile concessione di Effigi editore)

Giornalista parlamentare dal 1969, è stato per l’Agenzia di Stampa Ansa corrispondente dalla Somalia, vaticanista, caposervizio politico, responsabile della redazione Ansa-Bloomberg Tv.