I cittadini del Sud già pagano la dualità economica del Paese, perché hanno molti meno servizi. Nel Sud c’è un deficit di cittadinanza che va dal trasporto pubblico locale alla sanità, dagli asili nido fino a tutte le prestazioni del welfare. Per superare il divario Nord/Sud attraverso i Lep − Livelli essenziali delle prestazioni − e quindi il divario di cittadinanza ai danni del Mezzogiorno, lo Stato dovrebbe ritornare alle politiche redistributive del reddito. Una funzione che ha abbandonato nel corso degli ultimi decenni a favore di privatizzazioni e liberalizzazioni. Tutto è cominciato nel 2001, quando la parola Mezzogiorno è scomparsa dalla Costituzione con la modifica del Titolo V. E il sistema statale si sgretola rinunciando ad uno stato sociale al servizio dello sviluppo della personalità umana. È questo il grande progetto culturale e sociale «profondamente umano», per usare le parole di Aldo Moro, contenuto nei princìpi della Costituzione repubblicana da trent’anni nel mirino


◆ L’analisi di CARLO IANNELLO

È di questi giorni l’approvazione, da parte del Senato, del disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata. I suoi esiti per il Sud saranno gravi. In breve, meno diritti (meno sanità, trasporti, welfare). Occorre ricordare, tuttavia, che la parola Mezzogiorno è stata cancellata dalla Costituzione nel 2001, con la riforma del Titolo V. Oggi in Costituzione non ci sono più i riferimenti al Mezzogiorno che i Costituenti, nel 1948, ritennero doveroso inserire. A scomparire dal testo fondamentale nel 2001 è stato anche l’interesse nazionale, incredibilmente ritenuto un concetto centralista e obsoleto. La medesima riforma, dopo aver profondamente incrinato il ruolo dello Stato, cui sono state attribuite limitatissime competenze, ed ampliato a dismisura quello delle Regioni (cui sono state affidate competenze che riguardano interessi nazionali, dall’ordinamento della comunicazione alla tutela della salute fino alle grandi reti di trasporto e alla produzione, trasporto e distribuzione «nazionale» – si avete letto bene, nazionale – dell’energia), ha anche previsto l’autonomia differenziata. 

L’art. 116.3, infatti, prevede che le regioni possano ottenere addirittura ulteriori competenze, contrattando autonomamente e singolarmente con lo Stato, come se si trattasse di un rapporto paritario. L’attuazione di questo articolo è stata messa all’ordine del giorno a partire dal 2014, quando il Veneto approvò una legge per indire un referendum regionale che chiedeva, oltre a cose ictu oculi costituzionalmente inammissibili, come la secessione o trattenere i nove decimi del gettito fiscale, anche l’attuazione di questo articolo. Sebbene questa legge sia stata dichiarata incostituzionale, la Consulta, mostrando invero non poca superficialità, salvò la richiesta referendaria volta a chiedere ai cittadini se volessero l’attuazione dell’art. 116.3 comma. Nel 2017 si svolse il referendum non solo in Veneto, ma anche in Lombardia. Da allora, il regionalismo differenziato ha rappresentato una priorità di tutti i governi che si sono succeduti: da Gentiloni al Conte I, al Conte II fino al governo Draghi. In nessun caso la procedura si è conclusa, complici anche i frequenti cambiamenti dell’esecutivo. 

Questi numerosi tentativi di attuazione hanno fatto tuttavia comprendere che l’articolo 116 (come gli altri della riforma del 2001) è scritto malissimo. Si è fatta pertanto strada l’idea che fosse necessaria una legge (non richiesta espressamente dall’art. 116.3) che chiarisse come attuare il regionalismo differenziato. Il disegno di legge Calderoli punta, pertanto, a rendere eseguibile una disposizione costituzionale oscura, ma non determinerà direttamente alcun cambiamento sostanziale. Il cambiamento vero sarà prodotto dalle eventuali future intese che si realizzeranno fra lo Stato e le singole regioni che chiederanno di avvalersi dell’art. 116.3 comma. Questo articolo, infatti, legittima le regioni a stipulare intese con lo Stato in grado di derogare al riparto costituzionale di competenze, con tutte le gravi conseguenze in termini di diritti e di spesa pubblica che ne possono derivare. 

Quando il processo lo stava realizzando il Governo Conte, le regioni che manifestarono la loro intenzione di avvalersi del regionalismo differenziato furono 14. Occorrerà attendere la fase delle intese per comprendere se l’opposizione di questi giorni (da parte di coloro che, quando erano maggioranza, avevano posto l’attuazione del regionalismo differenziato come punto programmatico fondamentale), è solo strumentale o se indica un cambiamento di rotta. Al momento coltiviamo il dubbio perché, almeno sino ad oggi, la critica al disegno di legge sul regionalismo differenziato non è stata accompagnata da nessuna riflessione autocritica da parte di chi ha contribuito in modo determinante alla situazione attuale, inserendo la stessa previsione del regionalismo differenziato in Costituzione e puntando poi alla sua attuazione.

Per quanto riguarda il Sud, occorre evidenziare che i cittadini già pagano la dualità economica del Paese, perché hanno molti meno servizi. Nel Sud c’è un deficit di cittadinanza che va dal trasporto pubblico locale alla sanità, dagli asili nido fino a tutte le prestazioni del welfare. Un dualismo che si è accentuato negli ultimi decenni, complici le nuove relazioni tra Stato e regioni determinate dal Titolo V e una politica nazionale da decenni intenzionata ad abbandonare il Sud a sé stesso e che, inoltre, ha dimenticato cosa sono le politiche redistributive. Il disegno di legge Calderoli cerca di dare, formalmente, una risposta al meridione, stabilendo che la fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep), da garantire su tutto il territorio nazionale, sia una condizione necessaria per l’attuazione del regionalismo differenziato. Inoltre, prevede la clausola dell’invarianza finanziaria, cioè nessuna regione dovrà avere minori trasferimenti di quelli attuali. Si tratta, sulla carta, di disposizioni volte a ridurre i divari tra Nord e Sud e a superare le critiche avanzate dall’opinione pubblica. Dare attuazione ai Lep, infatti, dovrebbe comportare una diminuzione del deficit di cittadinanza del Sud. 

Ma il punto vero è che tali disposizioni paiono destinate a rimanere sulla carta. Non esiste infatti la possibilità pratica di dare attuazione ai livelli essenziali delle prestazioni, in quanto la spesa pubblica necessaria sarebbe enorme, dato il divario attualmente esistente. Inoltre, l’attuazione dei Lep imporrebbe un totale cambiamento di rotta rispetto al passato, almeno per due ragioni. In primo luogo, perché lo Stato dovrebbe ritornare attore di politiche redistributive del reddito, funzione che ha abbandonato nel corso degli ultimi decenni, che hanno visto trionfare privatizzazioni, liberalizzazioni, governo dei mercati e conseguente ritiro dello stato dai suoi compiti redistributivi volti a realizzare fini sociali. Inoltre, una tale politica imporrebbe un cambiamento radicale anche nei rapporti Nord/Sud rispetto agli ultimi decenni in cui il Nord ha drenato la maggior parte della spesa pubblica, determinando un divario che negli ultimi decenni è costantemente aumentato ed oggi assume dimensioni allarmanti. Infine, è lo stesso strumento del Lep ad essere debole e di incerta efficacia (non a caso è stato previsto proprio dal titolo V del 2001): si può fare l’esempio della sanità, in cui, sebbene ci siano i livelli essenziali di assistenza (Lea), le diseguaglianze tra il Sud e il Nord non solo restano enormi ma sono in costante aumento (nonostante, o a causa dell’inefficienza, dello strumento dei Lea).

Per cui, se tutto andrà nel migliore dei modi possibili, anche con la fissazione dei Lep, le diseguaglianze attuali non si ridurranno di un millimetro. Nel migliore dei casi, dunque, resteranno cristallizzate ai livelli attuali. Però, per un giudizio definitivo, occorrerà attendere le previsioni delle intese che le singole regioni stipuleranno con lo Stato. Infatti, la legge che renderà operative queste intese potrebbe anche porre nel nulla le disposizioni del disegno di legge Calderoli (che non può vincolare leggi successive); il riferimento è in particolar modo alle previsioni sui Lep e sull’invarianza finanziaria. A tale proposito mi pare utile ricordare le bozze di intesa del 2018, firmate dall’allora sottosegretario Bressa del Governo Gentiloni, che sul punto erano ben più gravi. Ad esempio, la bozza di intesa dell’Emilia Romagna, che porta la firma di Bonaccini, in qualità di presidente della Regione, con riferimento alle risorse (art. 4), stabiliva che i «fabbisogni standard» fossero definiti in base ai tributi versati nel territorio regionale. In poche parole, di più ai ricchi (che versano più tributi), di meno ai poveri (che ne versano meno). Tanto è vero che un noto professore dell’Università di Bari, Gianfranco Viesti, ha inventato la fortunata formula della «secessione dei ricchi». Questa era un’ipotesi di attuazione del 116.3 tutta interna al centrosinistra, che adesso è su posizioni critiche. 

Sebbene l’introduzione stessa dell’art. 116.3 comma e i suoi numerosi tentativi di attuazione siano stati immaginati con il fine di liberare la ‘locomotiva’ del Nord dal peso rappresentato dalle regioni meridionali, ritengo che dall’attuazione di questo articolo l’intero Paese ne risulterà svantaggiato, perché il superamento del dualismo è un preminente interesse nazionale, come riconosciuto dalla stessa Unione Europea. È un’illusione immaginare che, in un contesto competitivo e globale come quello attuale, si possano salvare autonomamente le economie di alcune regioni, con un sistema statale che si sgretola sempre di più. Alla fine, le conseguenze negative le pagheranno tutti gli italiani, compresi i cittadini del Nord. Se quest’operazione avrà un effetto negativo per tutto il territorio nazionale, assisteremo nei prossimi anni alla meridionalizzazione del Nord. Con buona pace di un ventennio di retorica celebrazione delle virtù palingenetiche del Titolo V, in cui un ruolo di primo piano è stato interpretato dai mass media e dal ceto intellettuale di questo Paese, sempre inclini a conformare acriticamente il proprio pensiero alle mode del momento. 

La moda adesso va in un’altra direzione. Intellettuali e mass media, in maniera quasi unanime, sono concordi nell’affermare che il governo di centro destra stia attentando all’unità nazionale, dimenticandosi però che lo stato unitario è già ridotto in cocci a causa delle politiche neoliberali degli anni Novanta (che ne hanno sterilizzato la sua capacità di direzione dell’economia e della società, per affidarla ai mercati, mettendone fuori gioco anche la funzione redistributiva) e della riforma del Titolo V, di cui il regionalismo differenziato, che l’attuale governo sta cercando di attuare, rappresenta solo la disposizione più scellerata. Se questa operazione si realizzerà, riattaccare i cocci in cui si è frammentato lo Stato sarà ancora più difficile e nessun componente dell’attuale ceto politico potrà dirsi senza colpa. L’attuazione del regionalismo differenziato certifica un dato con cui bisognerà fare i conti: che la classe dirigente e politica di questo Paese è del tutto inadeguata. 

Natalino Irti, professore emerito di Diritto privato presso l’Università di Roma “La Sapienza” e socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, nonché presidente dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli

Natalino Irti nel 2004, in Nichilismo giuridico, commentando l’articolo 114 della Costituzione italiana scritto nel 2001 (secondo il quale «la Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato») amaramente osservava: la Repubblica «da forma o sinonimo di Stato, si eleva a contenitore; e lo Stato, da soggetto che gli altri abbracciava e raccoglieva in sé, decade a elemento di un insieme. L’antica unità è sgretolata; la nuova si affida soltanto alla sintassi di una proposizione normativa. E come poi invocare o esigere il senso dello Stato quando lo Stato ha perduto ogni senso?».

La realizzazione dell’unico obiettivo serio, ridare senso allo Stato, per usare l’espressione di Irti, dovrà essere assunto da una nuova classe dirigente capace di riprendere le fila del grande progetto culturale e sociale, «profondamente umano», per usare le parole di Aldo Moro, contenuto nei principi della Costituzione repubblicana, che aveva disegnato uno stato sociale al servizio dello sviluppo della personalità umana. Progetto che nulla ha a che vedere con il dominio delle categorie del capitalismo, cui abbiamo assistito negli ultimi anni e di cui lo stesso art. 116.3 è chiara espressione, che mira, al contrario, allo sfruttamento dell’uomo e alla sua riduzione a «capitale umano», posto al servizio di un’economia speculativa e disumana. L’egoismo insito nell’idea stessa del regionalismo differenziato, per come è nato e per come lo si vorrebbe attuare, non è che una delle tante espressioni di questo incontrastato dominio dell’economia.

Se si vuole trovare un risvolto positivo di questa iniziativa del governo di centrodestra è che potrebbe innescare un processo di valutazione critica dei paradigmi che hanno dominato la scena pubblica negli ultimi trenta anni e porre le basi per una necessaria stagione di resistenza umana, di cui si avverte un grande bisogno, che riaffermi ciò che il personalismo dei Costituenti, e di Aldo Moro in particolare, hanno cristallizzato in Costituzione, cioè che «il fine è l’uomo», principio compromesso dal dominio incontrastato di una tecno-economia bramosa di affermare la sua potenza contro l’uomo, la cultura e i valori umanistici, dei quali la solidarietà è parte essenziale. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Napoletano, è professore di Istituzioni di Diritto pubblico presso l’Università della Campania Luigi Vanvitelli dove insegna Diritto dell’ambiente, Diritto pubblico dell’economia e Biodiritto. È stato visiting professor presso università francesi (Paris 2 Panthéon Assas, Università Du Maine, Università di Toulouse). È autore di ricerche sui servizi pubblici locali e nazionali, sul regionalismo differenziato, sui diritti fondamentali, sul tema «Salute e libertà. Il fondamentale diritto all’autodeterminazione individuale». Da sempre impegnato in battaglie civili a difesa del patrimonio storico, artistico e paesaggistico e contro l’assalto ai beni collettivi. Componente dell’Assise di Palazzo Marigliano dal 2004, tra il 2011 e 2016 è stato consigliere comunale a Napoli e presidente della Commissione urbanistica. Carica da cui si è dimesso, in polemica con la proposta dell’amministrazione di ricapitalizzare la società “Bagnoli Futura” con beni pubblici appartenenti al patrimonio indisponibile dell’ente. Di lì a poco la “Bagnoli Futura” fallì.