Elly Schlein, la vincitrice delle primarie del Pd (a sorpresa: Bonaccini era stato dato per favorito sempre, e da subito) ora dovrà fare i conti con un’agenda complicata. Dai rapporti con le altre forze di opposizione, Cinque Stelle in testa, a scelte difficili come confermare il sostegno militare all’Ucraina, oppure cominciare a prenderne le distanze. Dovrà decidere se seguire la linea tracciata da Enrico Letta, o procedere in discontinuità. In una situazione però complessivamente favorevole: le acque agitate per il governo aiutano di norma chi fa un’opposizione efficace, e la vittoria della prima donna alla guida del Pd è stata accolta con curiosità ma anche con un credito di fiducia
L’analisi di FABIO MORABITO
LA NOVITÀ È STATA considerata necessaria, e questo forse spiega in poche parole il successo di Elena Ethel (detta Elly) Schlein, 37 anni, alle primarie del Pd, domenica 26 febbraio, che l’hanno indicata come nuovo segretario (53,75% dei voti per lei ai “gazebo”). Con una curiosa conseguenza: Schlein, prima di diventare deputata nell’autunno scorso, era vicepresidente dell’Emilia Romagna, e ora ha sconfitto chi della Regione è il presidente, Stefano Bonaccini. Si potrebbe anche sostenere – e qualcuno lo fa – che in fondo il suo successo, che è anche la prima volta di una donna a guida del Pd, è un effetto della nomina a Palazzo Chigi della prima donna come Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Quando una donna ai vertici non sarà più qualcosa di nuovo, si potrà dire che in politica c’è parità di genere.
Fatto è che alla guida dei due principali partiti (Fratelli d’Italia e Partito democratico) ci sono ora due donne. Chissà se questo scenario, doppiamente inedito, ci saprà raccontare una sfida diversa. È probabile: sono due donne, le più lontane possibile una dall’altra (e non solo come schieramento politico) a cominciare dalle origini. Popolari per Giorgia Meloni, baby sitter e barista nell’adolescenza. Figlia di due professori universitari Elly Schlein. Tutto sembra dividerle, ma non tutto le divide. Schlein avrà buon gioco – per ruolo, linguaggio, ma anche proprio per essere donna – a farsi identificare come anti-Meloni. Anche se poi è proprio il fatto che alla guida della coalizione di destra c’è una donna ad aver probabilmente favorito, almeno in parte, un effetto-emulazione tra i votanti che hanno scelto Schlein.
Ma quanto rappresenti una novità questo risultato, lo dà prima di tutto l’esito diverso tra il voto ai circoli (dove hanno votato gli iscritti, e ha primeggiato Bonaccini con 18 punti-percentuale di vantaggio su Schlein) rispetto al voto ai gazebo (aperto a tutti i cittadini, con la conseguenza che anche chi non ha mai votato Pd è stato messo in condizioni di influire sulla scelta del segretario). L’affluenza ai gazebo è stata superiore – non largamente, ma superiore – a quella che era stata definita nel partito come la linea rossa tra insuccesso e risultato accettabile, un milione di voti. Hanno espresso la loro preferenza 1 milione e 98 mila cittadini. È stata l’affluenza più bassa di sempre alle primarie nazionali del Pd, ma anche il numero di elettori alle Politiche di settembre è stato quello più basso. E quindi non c’è da stupirsi: l’astensione è malessere che riguarda il voto in tutte le sue declinazioni.
Ma la vittoria di Elly Schlein apre a delle incognite, il che non necessariamente sono un problema. Anzi, in questa fase sono prima di tutto una chiave di lettura di quello che è successo. Come nel voto alle Politiche, dove si è aperta un’autostrada a un partito (Fratelli d’Italia) che è stato fin dalla sua fondazione arroccato all’opposizione, un pensiero avrà mosso molti simpatizzanti: proviamo anche questo. Si cerca la novità, e questo avviene ormai da alcuni anni in politica, e non solo in Italia. Insofferenza e insoddisfazione questa volta si sono abbattuti su Stefano Bonaccini, che sulla scena nazionale avrebbe rappresentato peraltro anche lui una novità, ma una novità dalle apparenze sbiadite, magari rassicuranti, ma che ispiravano senso di continuità e non un “voltare pagina”.

Naturalmente, che poi Schlein sia veramente una figura di rottura rispetto al passato è ancora da vedere. Una delle definizioni che l’accompagna (“radicale”) è forse troppo sbrigativa, e lei all’opera potrebbe sorprendere semmai per la sua cautela. Data per certa è una ricollocazione del Pd a sinistra, e questo è nella storia della Schlein che lasciò il partito durante la gestione di Matteo Renzi. “Facciamo la sinistra” è la dichiarazione-slogan della neo-eletta. Ha ripreso la tessera di partito da appena due mesi, e per farle posto nella corsa al vertice è stato anche ritoccato lo Statuto. Grazie a una proposta “ad personam” del segretario uscente Enrico Letta, che evidentemente aveva intuito le possibilità di questa giovane deputata (eletta alla Camera come indipendente) e che stava lanciando la sua rincorsa da fuori il partito. Proprio per questo rapporto dentro-fuori-dentro la neo-eletta è ora in grado di prendere le distanze – senza segni di contraddizione – dalle decisioni più controverse del Pd negli ultimi anni, dal jobs act al sistema elettorale Rosatellum. Sulle responsabilità del governo guidato da Paolo Gentiloni (con ministro dell’Interno Marco Minniti) riguardo la gestione della politica sui migranti è già stata dura (molto) quando era europarlamentare. Alcuni passaggi (come quando aderì al gruppo Possibile, guidato da Pippo Civati) ne testimoniano il coraggio di scegliere posizioni di minoranza e non di oppurtunità. Naturalmente tutto sarà da cogliere, e capire, perché quello che conta succede adesso.
Ci saranno da definire alcuni temi, più urgenti di altri: le alleanze in prospettiva, da collaudare già come linee concordate nell’opposizione – e quindi il rapporto con i Cinque Stelle -, la posizione sulla guerra in Ucraina relativamente al sostegno militare (per ora è sì, potrebbe dirigersi verso qualche distinguo in più). Questo sarà uno dei nodi più attesi. Prenderà tempo? Pur avendo sempre rivendicato il suo essere pacifista, ha votato da deputata per proseguire ad armare Kiev. Ma tra le fila di chi coinvolgerà nella gestione del partito sarà sicuramente rappresentata quella parte del pacifismo contraria ad armare l’Ucraina. Si tratta di un tema trasversale. Convinti fino in fondo della linea adottata finora restano Giorgia Meloni e Carlo Calenda. Schlein è attesa al varco, non tanto da chi governa, ma dalle altre opposizioni (più in là, anche dal suo partito). Girando il timone per andare a sinistra, dovrà stare attenta a non perdere i consensi considerati più moderati.
Ma soprattutto c’è da decidere che peso dare alla politica del lavoro e alla difesa dell’ambiente, al di là delle dichiarazioni di principio, che potrebbero ridefinire in modo meno opaco un’identità di sinistra. Per ora, il Pd si è dato uno spiraglio di fiducia, un’apparenza di rinnovamento nei ranghi – ma anche qui, bisogna vedere che spazio pretenderanno i leader di corrente del Pd, Dario Franceschini in testa, che con buon fiuto hanno subito appoggiato Schlein. Quando in precedenza il rinnovamento nel Pd è stato netto, e cioè con Matteo Renzi, si toccò un picco di entusiasmo (il 40,8% alle Europee 2014) e un finale tempestoso. Ma si tratta di due vicende – e due protagonisti – molto diversi. Allora il partito spiaggiò verso destra, governando prima con Forza Italia e poi con gli scissionisti guidati da Angelino Alfano. Tanto è che adesso Renzi è approdato a un’alleanza con Carlo Calenda (anche lui transfuga, in tempi diversi, dal Pd) e insieme aspettano di raccogliere i cosiddetti riformisti del Partito, in eventuale fuga dalla nuova leader. Schlein guarda invece agli spazi conquistati dai Cinque stelle, che hanno raccolto parte di quanto il Pd ha perduto a sinistra.

Che l’ex ministro Giuseppe Fioroni abbia già lasciato, subito dopo la vittoria della Schlein, è stato enfatizzato. Anche se altre uscite saranno da mettere in conto – il Pd è per sua natura friabile e ha vissuto violente scissioni negli ultimi anni, da D’Alema e Bersani a Renzi – è una figura fuorviante sostenere che il partito sia “spaccato in due” per il voto ai gazebo, quasi 50/50. È la formula elettorale che si è dato il Pd ad aver portato a uno spareggio tra i due candidati superstiti alla segreteria (si erano fatti avanti in quattro, c’erano anche Gianni Cuperlo e Paola De Micheli). E dire che quando si sceglie tra due candidati si è spaccati (a risultati acquisiti lo hanno detto in tanti) non ha molto senso, perché è proprio questa formula di voto a provocare una contrapposizione, altrimenti sarebbe un plebiscito. Il partito resta quello di prima, diviso tra correnti, ma con la possibilità di spingersi finalmente in mare aperto. Ci riuscirà Elly Schlein?
Il Pd è stato fondato nel 2007, ha già avuto prima d’ora nove segretari diversi con un paio di repliche. Qualcuno eletto con le primarie, qualcun altro con il passaggio del testimone dopo le dimissioni. Per la prima volta, il voto dei circoli (quelli che non li apprezzano li chiamano “apparato”) non ha dato lo stesso esito del voto “allargato”. Ma sottovalutare il valore del consenso degli iscritti sarebbe un errore, perché l’essere un partito strutturato è una risorsa. C’è una cambiale di fiducia sufficientemente diffusa da permettere un avvio, ma un eventuale forte consenso nei primi mesi non dovrà illudere Schlein che ci sia pace nel partito. Un’identità il Pd se la potrà dare anche senza strappi, che non fanno bene quando la strada è in salita. © RIPRODUZIONE RISERVATA