
Abituato ad applaudire le medaglie di ammirevoli lottatori, nobili schermidori e infallibili tiratori, nell’irripetibile 1° agosto il pubblico italiano si è finalmente sentito al centro del mondo anche nelle vicende dell’atletica, la incontrastata regina dei Giochi. Dove siamo quasi sempre comprimari, abbiamo vissuto 11 minuti leggendari, cominciati con i salti di gioia di Tamberi e terminati con il fantastico rush di Jacobs. Due ori in undici minuti, due prime volte assolute nella storia delle Olimpiadi. E poi la “locomotiva umana” Ganna, le due medaglie d’oro alla sofferenza fisica della Palmisano e di Stano, e la tenacia di Paltrinieri. Il settimo posto nei 200 stile libero della Pellegrini vale la 41ª medaglia azzurra
L’analisi di MARCO FILACCHIONE

SI ERANO FATTE LARGO a fatica, messe nell’angolo dai festeggiamenti post Europei di calcio e minacciate dall’allarme Covid. Poi, giorno dopo giorno e medaglia dopo medaglia, le Olimpiadi sono riemerse in tutto il loro fascino, regalando al pubblico italiano, anche a quello meno attento alle vicende sportive, epocali giornate di euforia.
Le analisi a caldo, compresa quella del presidente del Coni Malagò, hanno esaltato i numeri della spedizione azzurra a Tokyo: mai nella storia dei Giochi era stato toccato il tetto delle 40 medaglie (10 d’oro, 10 d’argento e 20 di bronzo). Tuttavia, non è forse quello quantitativo l’aspetto più esaltante, anche perché si finisce con il fare confronti indebiti. Le Olimpiadi giapponesi si sono articolate su 339 eventi, un numero esorbitante rispetto alle edizioni precedenti: a Rio 2016 erano 306, andando a ritroso fino ad Atlanta 1996 se ne contano solo 271. Normale, quindi, che aumentando le medaglie a disposizione, ogni paese possa battere i suoi vecchi primati. Tanto è vero che, a dispetto dei successi in crescita, il decimo posto azzurro nel medagliere di Tokyo 2020 risulta più o meno in linea con la tradizione recente (nelle tre edizioni precedenti finimmo noni).
Ciò che ha fatto la differenza rispetto al passato è stato piuttosto l’aspetto emozionale, deflagrato in un irripetibile 1° agosto. Abituato ad applaudire le medaglie di ammirevoli lottatori, nobili schermidori e infallibili tiratori, il pubblico italiano quel giorno si è finalmente sentito al centro del mondo anche nelle vicende dell’atletica, la incontrastata regina dei Giochi. Là, dove siamo quasi sempre comprimari, abbiamo vissuto 11 minuti leggendari, cominciati con i salti di gioia di Tamberi e terminati con il fantastico rush di Jacobs. Due ori in undici minuti, due prime volte assolute nella storia delle Olimpiadi.

Di lì, è stato un susseguirsi di momenti memorabili. I più intensi li hanno offerti due quartetti: nel ciclismo, inseguimento a squadre, la finale Italia-Danimarca è stata ad alto rischio coronarico. Sfavoriti nel pronostico, Ganna, Lamon, Consonni e Milan sono andati sotto di quasi un secondo dopo tre dei quattro chilometri previsti. Un ritardo difficilmente colmabile contro avversari del genere e con soli mille metri a disposizione. Se non che, quei mille metri erano affidati alle gambe e al cuore di Filippo Ganna, per il quale è stato giusto riesumare l’antico appellativo di “locomotiva umana” che fu riconosciuto a Learco Guerra. La sua tirata, scandita televisivamente dai rilievi statistici in sovrimpressione, è stata impressionante: sette decimi di ritardo a tre giri dalla fine, mezzo secondo ai due giri, tre decimi al penultimo e poi il sorpasso in extremis, quasi invisibile a occhio nudo.
Non meno emozionante, e ancor più inattesa, l’impresa della 4×100 di atletica. La finale raggiunta era già un grande risultato, la medaglia un obiettivo tremendamente difficile. Sgradevoli polemiche erano già arrivate dai media britannici e statunitensi sulla “strana” vittoria nei 100 di Marcell Jacobs, considerato non più di un carneade, malgrado già a marzo fosse diventato campione europeo indoor nei 60 metri, prima di centrare il record italiano dei 100 metri con 9”95. Il sospetto è un esercizio diffuso, ma ha bisogno di riscontri, per ora assenti. Concreta invece la squalifica per doping proprio di uno sprinter statunitense, il campione del mondo Christian Coleman, punito lo scorso anno per non essersi fatto trovare per ben due volte ai controlli antidoping.

La staffetta 4×100 è un esercizio particolare e spietato. Oltre alla velocità ci vuole sincronismo, intesa, disponibilità a lavorare in gruppo. Un cambio schiacciato o ritardato, una presa mancata del testimone mandano in fumo anni di lavoro. Patta, Jacobs e Desalu sono stati quasi perfetti, il resto lo ha fatto Filippo Tortu, recuperando centimetro su centimetro all’inglese Mitchell-Blake e sollevando nei meno giovani il ricordo del Mennea di Mosca 1980: stessa corsia, la ottava, stessa corsa potente e sciolta, stessa rimonta ai danni di un inglese, Alan Wells.
Quanto agli statunitensi, rimasti incredibilmente fuori dalla finale in una gara che una volta erano abituati a dominare, in cambio dei loro sospetti hanno dovuto accettare la rampogna del direttore tecnico azzurro Antonio La Torre: «A prescindere da polemiche gratuite hanno parecchio lavoro da fare. I più forti velocisti del mondo che non si qualificano con la staffetta, non vincono 100, 200 e 400 metri. È sempre colpa degli altri?».
Il richiamo al lavoro da parte degli “sfaccendati” italiani può apparire beffardo, ma conviene tenere alla larga stereotipi largamente superati dai fatti, non meno di facili esaltazioni patriottarde. Gli atleti italiani continuano ad eccellere in discipline improntate alla sofferenza fisica, vedi il perdurante dominio sulla marcia maschile e femminile (due medaglie d’oro nella 20 km, con Antonella Palmisano e Massimo Stano).

Quanto all’aspetto multietnico della spedizione italiana, in un paese normale non dovrebbe essere un elemento sorprendente, né sollevare polemiche. Semmai può far riflettere la storia di Fausto Desalu, uno dei quattro della staffetta d’oro. Nel 2011 fece il record italiano allievi dei 60 metri ostacoli indoor. Il risultato però non fu omologato perché lui, nato a Casalmaggiore da genitori nigeriani, non era ancora “italiano”. Lo sarebbe diventato, d’incanto, una volta compiuti i 18 anni. © RIPRODUZIONE RISERVATA