Il nostro Paese non è  Cappuccetto Rosso alle prese col lupo cattivo. Spesso sembra che non meritiamo di stare nel G7, e non ultimi, ma manifattura e alcuni settori da primato, dalle componenti aeronautiche, ai sistemi elettronici di controllo alle eccellenze enogastronomiche alla crescente diffusione del lavoro “verde”, fanno del nostro tessuto produttivo qualcosa di grande valore. Nel caso dell’energia, poi, la transizione a gas la impostammo negli anni ’80 e stoppammo di fatto anche il carbone; con alcuni decenni di vantaggio sulla Germania, che ha indugiato sul carbone per i bassi prezzi dell’elettricità così prodotta. E l’unico vero intoppo a uscire dal gas è la tigna dell’Eni


L’analisi di MASSIMO SCALIA 

Il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani: tante cortine fumogene di parole senza decisioni concrete e conseguenti per far cambiare rotta all’Eni e uscire dalle energie fossili 

“TRANSIZIONE ECOLOGICA”: quando mancano i concetti nascono le parole aveva osservato Goethe, dall’alto del suo genio. Qui da noi a capovolgerne il significato ci pensa, impudente, il ministro responsabile. I concetti ci sono eccome, quello fondamentale nella mente di Cingolani è parlare di tutto, stendere una verbosa cortina fumogena in modo che l’Eni non debba modificare un piffero dei suoi asset immobilizzati sugli idrocarburi. Assai più che fumogeni. Ora e sempre. L’abbiamo ripetuto un numero spudorato di volte, continueremo finché ministro ed Eni non cambieranno rotta, o gli “apicali” non siano sostituiti da gente che ha a che vedere con le colossali sfide industriali, economiche e sociali conseguenti a politiche attive nel solco di Next generation Eu.

Certo, c’è da far tremare le vene ai polsi, sempre che si abbiano i polsi. E Cingolani ha virilmente evocato un «bagno di sangue» per la transizione, versione più squatter del noto “La rivoluzione non è un pranzo di gala”. Lenin mi dicono che si è vivamente risentito. Certo, bisognerà cioncare con un machete la selva di “economia circolare”, “resilienza”, “sostenibilità” e degli altri luoghi comuni che già vengono profusi a doccia per avvolgere col nulla azioni timide e inadeguate quando non contrapposte.

La Germania accelera sulla riduzione del 65% dei gas a effetto serra entro il 2030

Allora, bisogna riportarsi alla ferrea logica dei numeri e confrontarsi virilmente, anche il “Duca di Mantova”/Cingolani questa volta, con i numeri dell’omologo tedesco, Robert Habeck, che ha chiamato come consulente Patrick Graichen, uno tra i massimi esperti mondiali, mentre si vocifera che Cingolani si sia attorniato di mezze seghe per di più negazioniste. Quali sono i numeri tedeschi al 2030? Cominciamo dalla riduzione al 2030 delle emissioni Ghg (Greenhouse Gases) del 65% — a seguito di un intervento della Corte costituzionale tedesca: qui da noi i supremi giudici sono giuristi eminenti e dotti umanisti, che è questa volgarità da tecnici! 

Per conseguire un obiettivo così al di sopra del pur impegnativo 55%, deciso in successione nel 2020 da tutte le sedi Ue, il governo tedesco si impegna a uscire dal carbone otto anni prima del previsto 2038, all’80% di produzione elettrica con le rinnovabili. Poi, oltre alla conferma della chiusura del nucleare entro il 2022, uscita dal gas entro il 2040 e stop ai veicoli con i motori a combustione entro il 2035. Per citare gli aspetti più rilevanti. 

In Italia abbiamo chiuso col carbone e il nucleare decenni prima di quanto abbia deciso di fare la Germania

E vabbè, si sa, son tedeschi. Alto là, non è che il nostro Paese sia Cappuccetto Rosso alle prese col lupo cattivo. Spesso sembra che non meritiamo di stare nel G7, e non ultimi, ma manifattura e alcuni settori da primato, dalle componenti aeronautiche, ai sistemi elettronici di controllo alle eccellenze enogastronomiche alla crescente diffusione del lavoro “verde”, fanno del nostro tessuto produttivo qualcosa di grande valore. Nel caso dell’energia, poi, la transizione a gas la impostammo — chi scrive ne fu, modestamente, parte — negli anni ’80 e stoppammo di fatto anche il carbone; con alcuni decenni di vantaggio sulla Germania, che ha indugiato sul carbone per i bassi prezzi dell’elettricità così prodotta. E l’unico vero intoppo a uscire dal gas è la tigna dell’Eni, ma sempre pronti ad altre mazzate analoghe all’ultima sul Ccs (Carbon Capture and Storage), la cancellazione del denaro pubblico richiesto per il progetto. Pronti anche ad adire a un confronto in sede Ue sui punti “Gas&Oil” del nostro Pnrr.  

Dal nucleare siamo già usciti trent’anni fa — sempre col nostro modesto contributo — e ci troviamo a dover gestire un limitato numero di scorie radioattive; una gestione di materiali indubbiamente pericolosi, ma che solo l’impegno del ministro competente a inventarsi quella minchiata del commissariamento — il generale Jean, “commissario” dopo il decreto Berlusconi e la civile e vincente ribellione della Basilicata, non hanno insegnato niente sul consenso informato? — può portare a ulteriori ritardi e fallimenti. Ohibò, ma il ministro “competente” è ancora lui! Ma non gli bastava piagnucolare sulla “Supercar Valley”, quando si adombrò l’uscita al 2035 dai motori auto tradizionali? Se ogni corbelleria che ha detto o proposto fosse un palloncino, sarebbe assunto in cielo a velocità da numero di Mach.

Con 6-7 Gigawatt all’anno di energia solare possiamo raggiungere 80 Gw al 2030, più altri 20 di eolico

Il premier Draghi si deve dare una smossa, e anche il ministro dell’Economia, Franco, se insistono a voler lasciare nelle mani di Cingolani la fondamentale partita delle politiche energia/clima: “a … in mano a’ criature!” si diceva a Napoli. Resilienti o meno, la ferrea logica dei numeri guarda alle possibilità produttive del Paese e dice che 6/7 GW all’anno di solare PV sono alla portata del nostro sistema industriale: almeno 80 GW al 2030 a fronte dei 200 GW tedeschi. Già, ma loro puntano sulla tropicalizzazione del clima… Idem per 20 GW di eolico, di cui oltre la metà offshore. Tenendo conto del ritmo attuale di crescita delle biomasse, si arriva a oltre il 70% di elettricità prodotta da rinnovabili. 

Non è l’80% della Germania, ma, rispetto alla situazione attuale, è qualcosa che richiede un nuovo patto del lavoro tra imprese e sindacati, fortemente indirizzato dal Governo. Una forte partecipazione dei territori — i distretti industriali per le rinnovabili, con il coinvolgimento di Università e Centri di Ricerca — e segnatamente delle Regioni. E che molte Sovrintendenze la smettano di scambiare passatismo e pigrizia per solerte difesa dei beni culturali e del paesaggio. Ricordando poi che alcune non sono state, ahimè, così efficienti quando il Bel Paese veniva ricoperto di cemento e di asfalto, nella sdegnata e spesso solitaria denuncia di Antonio Cederna. Oggi, invece, si tratta per davvero di “fare l’Italia”© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Scienziato e politico, leader del movimento antinucleare e tra i fondatori di Legambiente. Primo firmatario, con Alex Langer, dell’appello (1984) per Liste Verdi nazionali. Alla Camera per i Verdi (1987-2001) ha portato a compimento la chiusura del nucleare, le leggi su rinnovabili e risparmio energetico, la legge sul bando dell’amianto. Presidente delle due prime Commissioni d’inchiesta sui rifiuti (“Ecomafie”): traffici illeciti nazionali e internazionali; waste connection (Ilaria Alpi e Miran Hrovatin); gestione delle scorie nucleari. Tra gli ispiratori della Green Economy, è stato a fianco della ribellione di Scanzano (2003) e consulente scientifico nelle azioni contro la centrale di Porto Tolle e il carbone dell’Enel (2011-14). Co-presidente del Decennio per l’Educazione allo Sviluppo Sostenibile dell’Unesco (2005-14). Tra i padri dell’ambientalismo scientifico, suo un modello teorico di “stato stazionario globale” (2020) (https://www.researchgate.net/profile/Massimo-Scalia)