Ci sono specie animali dichiarate in pericolo in Italia che ora si stanno riproducendo oltre le aspettative. O specie per le quali le amministrazioni locali premono per poter derogare al divieto di sopprimerle. Dal lupo (che sembrava dovesse scomparire, e ora ve ne sono in Italia 3.300 esemplari) alla tartaruga marina carretta carretta, dal gipeto barbato alla berta minore, la mappa della fauna italiana sta cambiando. Con qualche novità e sorpresa. Al punto che ci si può chiedere: vale la pena proteggere le specie in pericolo, e se sì quali? Quale funzione svolgono i bioparchi? In questa intervista lo spiega Giampiero Sammuri, presidente del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano, uno dei protagonisti più longevi dei Parchi italiani


◆ L’intervista di MAURIZIO MENICUCCI con GIAMPIERO SAMMURI, presidente Parco nazionale Arcipelago toscano

Inutile chiedersi: “Chi glielo dice che la pacchia è finita”. Probabilmente lo hanno già capito da soli che l’aria, per i lupi, è cambiata. In Svizzera e in Austria hanno già cominciato ad abbattere quelli ritenuti ‘di troppo’, criterio che certamente l’avvocato Esopo, loro storico legale malgrado la nota predilezione per l’agnello, non mancherebbe di respingere come troppo discrezionale. Anche in Italia, province e regioni autonome del nord est minacciano di seguirlo, chiedendo deroghe al divieto di sopprimerli, come ha già fatto il Trentino con due esemplari particolarmente attratti dal bestiame. E non è che per quelli attratti da prede selvatiche, in lizza coi cacciatori, l’orizzonte sia più roseo. Al massimo, per sfoItirne i branchi si possono seguire logiche differenti. C’è chi tenta di neutralizzarli sterilizzando maschi e femmine, sebbene questo funzioni, se funziona, con un solo esemplare per ogni gruppo, perché gli altri – del resto si tratta di animali culturali – mangian la foglia e non si fanno più né catturare, né raggiungere dalle fucilate soporifere. I guardacaccia croati, sloveni e austriaci, ad esempio, sono da tempo sulle tracce di un nucleo di 4-5 individui che vaga nella foresta di Tarvisio o meglio, vagava perché l’eliminazione dovrebbe essere ormai compiuta. In questo caso, il motivo era la selezione: il loro pelo, quasi nero – quello dei lupi –  rivelava una cosiddetta introgressione genetica, lo stigma, insomma, di un antico incrocio col cane, magari il peccato di un trisavolo, negativo per la purezza dello status di lupo selvatico. 

Gli esemplari di lupi censiti in Italia sono passati da un centinaio degli anni Sessanta del Novecento ai più di tremila odierni; sotto il titolo, una berta minore in volo in cerca di cibo; qui in basso, una caretta caretta in un centro di recupero

Ora, a voler sottilizzare, cane e lupo sono una sola specie, non a caso denominata Canis Lupus, quindi non sarebbero ibridi. Secondo gli esperti, però, il vero problema non è quello dei meticci, che, melanici o meno, sono sempre più diffusi; è il fatto che la popolazione italiana dei lupi è passata in mezzo secolo da cento esemplari, nessuno dei quali sulle Alpi, ai 3300 attuali, distribuiti in modo uniforme da sud a nord. Questo vuol dire, prima di tutto, che le iniziative di tutela, da qualcuno ritenute costose e inutili, lo hanno effettivamente salvato dall’estinzione, e non solo qui. Esemplari partiti dall’Italia hanno raggiunto i nuclei ormai sparuti della penisola iberica e della Germania, e quelli, invece, floridi dei Balcani, ricreando in ogni caso quei corridoi indispensabili al movimento e alla varietà genetica della specie. 

Giampiero Sammuri è presidente del Parco nazionale dell’ Arcipelago toscano e tra i maggiori esperti italiani di gestione della fauna selvatica. Lo incontriamo dietro le quinte del convegno organizzato dal Parco Natura di Bussolengo per fare il punto sulla protezione delle specie in pericolo e sul ruolo dei bioparchi in questo settore. Sammuri ricorda bene il punto zero del lupo, quando si pensava che la sua presenza nella Penisola fosse ormai irrimediabilmente compromessa: «Fino agli anni 60 del secolo scorso c’erano addirittura persone, i cosiddetti lupari, pagate per abbatterli. Poi, il divieto di cacciarli, la proibizione dei bocconi avvelenati e l’enorme aumento di cinghiali, cervi e caprioli, che sono le loro prede elettive, hanno creato le condizioni favorevoli perché si riprendesse». 

  — Non è un caso unico… 

«No, ancora più rapida e clamorosa è la ripresa della tartaruga marina Caretta Caretta: una quindicina d’anni fa se ne contavano poche decine di nidi in tutta Italia. quest’anno ne abbiamo accertati oltre 500, anche se siamo convinti che siano molti di più».

— Che importanza ha il riscaldamento climatico in questo exploit?

«Beh, la tartaruga è un rettile e il suo metabolismo dipende dalla temperatura esterna. Ma sono anche quarant’anni che le Carette vengono recuperate, curate, reintrodotte, quindi la conservazione attiva ha contribuito a salvarle probabilmente nella stessa misura del clima».

— Ha senso continuare a proteggere i protagonisti di questi recuperi demografici così miracolosi?

«Direi di no, anche perché si finisce per sottrarre energie e risorse economiche alla tutela urgente di tante altre specie, magari meno entusiasmanti e simboliche del lupo, o dell’orso, o della lince, ma non meno importanti per l’equilibrio ambientale. Certo, non dobbiamo dimenticare che i lupi hanno tenuto e tengono sotto controllo le popolazioni di ungulati che danneggiano l’agricoltura. Ma ora sono ampiamente fuori dalla zona di pericolo e le priorità sono altre. Penso agli invertebrati, alle api, alle farfalle: ce ne sono a decine in difficoltà. Il grande pubblico non le conosce e non le nota, però hanno anche più necessità di monitoraggio e di conservazione».

Gipeto delle Alpi (foto di Alessandro Benussialessa, Parco nazionale Gran Paradiso)

Che funzione hanno, oggi, quelli che potremmo chiamare ‘diversamente zoo’?

«Fondamentale per la conservazione. Sono sempre più numerose le specie a rischio che vi vengono fatte riprodurre per essere reintrodotte nei loro ambienti naturali. Un caso che abbiamo sotto gli occhi: il gipeto barbato. Sulle Alpi, era estinto dal 1910, oggi ne abbiamo più di 60 coppie nidificanti, frutto di reintroduzioni di animali riprodotti in bioparchi privati. Va anche detto che a volte i loro ambienti non esistono proprio più, quindi i bioparchi sono la sola possibilità di salvare specie orfane dei loro habitat. Sotto questo aspetto, una delle cause dei problemi delle specie originarie sono quelle esotiche, o invasive. È la prima causa. Una decina d’anni fa, una ricerca americana ha chiarito che, a partire dal 1500, il 42% delle estinzioni dal 1500 è dovuto all’arrivo di organismi alloctoni. Le isole sono particolarmente vulnerabili, anche se occupano solo il 5% del totale dei continenti. In pratica la loro biodiversità è inversamente proporzionale alle dimensioni. Più del 20% delle specie di uccelli e di roditori della Terra vivono su isole. Spesso si tratta di specie endemiche, cioè tipiche, quindi la loro scomparsa da quell’isola equivale a una scomparsa globale. L’ecologia insulare è particolarmente fragile. Penso alle Mascarene, o alle Mauritius, nell’Oceano indiano, dove probabilmente centinaia di vertebrati, considerando quelli che non abbiamo fatto in tempo a conoscere, sono scomparsi».

  — Però, nelle Mauritius, a estinguere nell’800 il dodo, un buffo colombo incapace di volare, è stato l’uomo. E sempre noi abbiamo sterminato l’alca impenne, altro uccello inetto al volo, che viveva sulle coste del Nordatlantico.

«Infatti, su molte isole siamo stati e siamo la specie aliena per eccellenza!».

Il ratto nero che ha decimato fino a 700 pulcini di berte minori in un anno

— Uomo a parte, la soluzione migliore trovata fino ad oggi per eliminare gli esotici più devastanti sono i mangimi mescolati a sostanze tossiche.

«Sì, soprattutto per il ratto, che è una specie molto invasiva, capace di forte impatto sulla biodiversità originaria».  

  — Una decina d’anni fa, nel Parco nazionale dell’Arcipelago Toscano furono condotte con successo delle campagne di eradicazione del ratto con mangimi tossici, nell’ambito di un progetto Life finanziato dalla Commissione Europea, in particolare sull’isola di Montecristo. Il Parco fu duramente contestato non solo dagli animalisti, ma anche da alcuni suoi colleghi. Che cosa temevano?

«A parte coloro che nemmeno sapevano di che stavamo parlando, si temevano effetti collaterali su tutte le specie presenti. Quando si ricorre a un prodotto tossico, anche se molto mirato sulla specie bersaglio, questi effetti sono documentati e vanno calcolati. Però bisogna anche valutare i danni causati all’habitat dall’organismo estraneo, e fare un bilancio». 

  — Nel caso di Montecristo, quali erano questi danni?

«Per la specie più colpita, la Berta minore, il tasso riproduttivo, a causa del ratto, che ne predava le uova e i nidiacei, era inferiore al 5%: su 100 coppie edificanti s’involavano solo 5 giovani. Eliminato il ratto, è risalito all’ottanta percento: in 10 anni, si sono involate quasi 5000 berte minori in più. Inoltre abbiamo scoperto alcune specie criptiche, cioè nascoste: con il ratto si conoscevano 9 tipi di farfalle all’isola di Montecristo, senza più ratti in giro, sono diventate 14. È verosimile che la maggior parte fosse presente anche prima, ma in modo talmente discreto e numericamente ridotto, a causa della pressione del predatore, che i ricercatori non le avevano notate. Di recente, sull’isola, è stata classificata anche un nuovo genere di lumaca. Lo stesso si può dire del discoglosso, un anfibio anuro, insomma una sorta di rospetto, endemico dell’area sardo-corsa: col ratto, era quasi scomparso da Montecristo, ora è di nuovo normale vederne i girini. Sono aumentati anche i succiacapre, che nidificano a terra, e gli assioli, che nidificano nelle cavità degli alberi».   

  — Ma è una competizione diretta, cioè tutte queste specie sono divorate dal roditore?   

«Per la berta è documentato, per le altre, considerati i loro habitat piuttosto accessibili e la flessibilità alimentare del ratto, è più che probabile che sia diretta». 

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Inviato speciale per il telegiornale scientifico e tecnologico Leonardo e per i programmi Ambiente Italia e Mediterraneo della Rai, ha firmato reportage in Italia e all’estero, e ha lavorato per La Stampa, L’Europeo, Panorama, spaziando tra tecnologia, ambiente, scienze naturali, medicina, archeologia e paleoantropologia. Appassionato di mare, ha realizzato numerosi servizi subacquei per la Rai e per altre testate.