In questo breve racconto autobiografico, Vittorio Emiliani – direttore del “Messaggero” in anni di grande autorevolezza e diffusione del quotidiano romano – ripercorre l’inizio della sua vocazione di giornalista. Una vocazione nata durante i primi anni di Università all’ateneo di Pavia, e dopo un prologo di difficili vicende familiari tra Urbino e la Bassa Ferrarese provocate dagli ultimi drammatici eventi della Seconda guerra mondiale


◆ Il racconto di VITTORIO EMILIANI

Waffen SS in combattimento; sotto il titolo, il centro storico della città di Urbino

Non sapevamo che i due Colli sui quali è stata edificata Urbino (Urbs bina dunque?), il Poggio e il Monte, fossero attraversati e “sottopassati” da una polveriera della Aereonautica che i Tedeschi non volevano assolutamente lasciare agli Alleati che erano già vicini alla città. Quindi si ostinarono a volere il trasferimento del materiale esplosivo lontano da Urbino e di questo dovette occuparsi nostro padre, Segretario comunale con un passato giovanile da ufficiale di Cavalleria. Subito si impegnò nella organizzazione del trasporto del materiale esplosivo al Nord, nel Veneto. Rimasero dei materiali esplosivi, i Tedeschi fecero saltare i due imbocchi della polveriera e fu per noi come un terremoto.

Poi se ne andarono nottetempo verso la confinante Romagna dove progettavano di attestarsi sulla cosiddetta Linea Gotica. Urbino divenne una città dietro le linee, quindi molto per tempo in agosto venne sabotata la Centrale elettrica e da allora dovemmo ripiegare su lumi a petrolio, a carburo, ad ogni possibile fonte alternativa di illuminazione. Così la città dopo il tramonto piombava nel buio. Un buio deserto.

Una sera che era già notte sentimmo battere al portone ripetutamente: era un frate del convento dei Cappuccini che era sceso di corsa da San Bernardino dove si trova il Cimitero per dire affannato che “ai Tedeschi ie fa impressione le casse”. Si rivolgeva a nostro padre, rimasto in pratica il solo amministratore in città. Il podestà e gli altri si erano rifugiati nelle case di campagna e quindi erano irreperibili. Il fraticello supplicava il babbo di salire subito con lui a San Bernardino. Il babbo gli disse di riferire ai Tedeschi che vi sarebbe andato la mattina seguente. E così fu.

Urbino, convento di San Bernardino

Alcuni partigiani slavi erano stati sorpresi e uccisi e i Tedeschi per sfregio volevano che fossero seppelliti senza cofani mortuari. Ma il babbo aveva detto loro di utilizzare i cofani mortuari sempre disponibili per gli anziani del Ricovero. I Tedeschi non volevano sentir ragione e nostro padre dovette salire a San Bernardino e far finta di piegarsi alla imposizione dei Tedeschi pressati dalla avanzata degli Alleati ormai ai monti Catria e Nerone che vedevamo dalle Mura.

Quella finzione gli venne attribuita come una colpa reale quando, dopo la Liberazione, venne arrestato e carcerato per collaborazionismo e salvato al processo davanti alla Corte di Assise in Ancona dalla testimonianza onesta e coraggiosa, dati i tempi, dei dipendenti comunali. Testimonianza che, con altre, concorse a farlo assolvere. Malgrado tante amichevoli pressioni perché rimanesse al Comune di Urbino, non se la sentì preferendo andare al Nord, nel Veneto a reggere un Comune, Cavarzere, in provincia di Venezia, semidistrutto. E poi per concorso a Copparo in provincia di Ferrara dove ci dovemmo trasferire tutti quanti dopo un decennio trascorso in Urbino davanti al Duomo e al Palazzo Ducale.

Un autentico shock dalla rinascimentale Urbino alla Bassa ferrarese, una pianura coltivata a grano e a canapa sino al Po, torrida d’estate e umida e piovosa d’inverno. Nostro fratello Andrea se ne andò molto presto a Bologna dopo una complicata Maturità per frequentare Lettere e Storia dell’arte. Adriana la maggiore delle sorelle si fidanzò e si sposò a Copparo con Armando, un geometra dinamico che doveva rivelarsi marito infedele (i due infatti si separarono), mentre Rina, maestra elementare, sposò un ottimo calcografo urbinate premiato alla Quadriennale di Roma e con una sala alla Biennale di Venezia. Subì numerosi aborti e anni più tardi la crudele morte del primogenito Giovanni, matematico geniale già in cattedra a Urbino, investito da un pirata della strada a Pesaro.

Il ponte coperto sul Po, simbolo storico della Città di Pavia

Nostro padre praticamente si oppose alla mia opzione per Lettere costringendomi a iscrivermi a Pavia (il babbo aveva vinto il concorso a Voghera che distava da Pavia una trentina di minuti di treno e da Milano una cinquantina, un rapido solo 38 minuti che però non fermava a Pavia). Fu un errore la scelta per me forzosa di Giurisprudenza dove mi trovai malissimo con due 21 iniziali dai quali mi risollevai con oscura fatica rimpiangendo Lettere. In realtà mi diedi ai giornali universitari raccogliendo l’eredità di Gerardo Mombelli divenuto a 21 anni presidente dell’Unuri (l’Unione nazionale universitaria rappresentativa italiana) cioè di tutti gli organismi universitari italiani. Mi lasciò in eredità il giornale “Ateneo Pavese” periodico di tutti gli iscritti che cercai di trasformare in un periodico di informazione sulle attività culturali (cineclub, concerti di musica classica, attività sportive, ecc.) e per Mombelli confezionai a Pavia il periodico “Unione Goliardica” raccogliendo e assemblando contributi da tutta Italia.

Insieme alla esperienza vogherese de “Il Cittadino”, con “Ateneo Pavese” di fatto cominciai ad occuparmi di carta stampata come direttore del giornale degli universitari pavesi. Partecipai ad un concorso che “Il Giorno” aveva indetto fra i giovani vincendolo, e in seguito conobbi il direttore Italo Pietra che cercava ragazzi e ragazze da provare ed eventualmente lanciare. Voleva delle idee e io gli proposi dei pezzi brevi su città di provincia investite dai primi effetti del boom economico. L’idea gli piacque e mi fece iniziare da Fidenza che in origine si chiamava Borgo San Donnino. Parlai col sindaco che era stato perseguitato dal regime fascista. Poi seguitai con Cesena sindaco Oddo Biasini, Urbino, Rimini e così via. Sarei più tardi diventato praticante alla pagina di Economia e Finanza e poi redattore e inviato del medesimo quotidiano. Il primo botto vero l’avevo però fatto con “L’Espresso” diretto da Arrigo Benedetti con una pagina intera, addirittura la terza, dedicata al maxi-sciopero dei marittimi italiani, durato 53 giorni nei porti di tutto il mondo (in navigazione, secondo il codice fascista, sarebbe stato ammutinamento). Benedetti mi propose di andare a Roma e rimase un po’ stupito che io non accettassi l’offerta. Ma a me interessava di più restare a Milano dove presto sarei andato, come ho raccontato, al “Giorno”. Dalla pagina di Economia e Finanza avevo la possibilità di fare inchieste socio-economiche in un momento interessantissimo: quello del boom economico. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Direttore onorario - Ha cominciato a 21 anni a Comunità, poi all'Espresso da Milano, redattore e quindi inviato del Giorno con Italo Pietra dal 1961 al 1972. Dal 1974 inviato del Messaggero che ha poi diretto per sette anni (1980-87), deputato progressista nel '94, presidente della Fondazione Rossini e membro del CdA concerti di Santa Cecilia. Consigliere della RAI dal 1998 al 2002. Autore di una trentina di libri fra cui "Roma capitale Malamata", il Mulino.