Nella città jonica dei Due Mari tutti sapevano di malattie e morti. Il tallone della famiglia Riva era, però, così ben piantato nel tessuto della città laica, e persino religiosa, che non trovavi nessuno disposto a raccontare davanti alla telecamera la propria tragedia personale o familiare. Ancora nel primo quinquennio del 2000 i “dati” − si fa per dire − sulle emissioni dell’acciaieria venivano comunicati telefonicamente a Bari, sporgendo la testa fuori dal presidio di zona dell’Unità sanitaria locale e scrutando il colore del fumo delle ciminiere. Le prime centraline funzionanti le mise poi Nicki Vendola


Il commento di IGOR STAGLIANÒ / 

La luce impareggiabile di Taranto riflessa nei suoi specchi d’acqua

HO SEGUITO PER VENT’ANNI le vicende dell’Ilva di Taranto. Le telecamere di “Ambiente Italia” le abbiamo portate più volte in quello spicchio di mondo, tra il Mar Grande e il Mar Piccolo. Luogo mirabile, con una luce che incanta registi e fotografi, abitato da bisogni di lavoro, speranze di benessere. Ricco di storia e bellezza, se solo − chiudendo gli occhi − guardassimo con la mente la città fondata da Sparta, divenuta capitale della Magna Grecia. Che conobbe l’età dell’oro ben prima dell’età …delle ferriere. Un territorio avvelenato dall’avidità del guadagno e dal disprezzo per la vita di donne, uomini e bambini, operai e cittadini. 

Vent’anni fa, per buona parte del primo decennio del secolo, tutti a Taranto sapevano di malattie e morti. Il tallone della famiglia Riva − il “sistema Riva” − era, però, così ben piantato nel tessuto della città laica, e persino religiosa, che non trovavi nessuno disposto a raccontare, davanti alla telecamera, la propria tragedia personale o familiare. Ancora nel primo quinquennio del 2000 i “dati” (si fa per dire) sulle emissioni dell’acciaieria venivano comunicati − pensate un po’ − telefonicamente a Bari: l’impiegato sporgeva la testa fuori dal presidio di zona dell’Unità sanitaria locale e scrutava il fumo delle ciminiere, riferendo, all’altro capo della cornetta, le sfumature del suo colore. Le centraline funzionanti fu Nicki Vendola a metterle nel suo primo mandato in Regione.

Manifestazione contro l’inquinamento dell’Ilva a Taranto

La morsa del padrone delle ferriere comincia ad allentarsi a cavallo dell’ultimo decennio, con cittadini coraggiosi che pagano di tasca loro le analisi per scovare la diossina negli alimenti o nei propri capelli. Le prime famiglie mi aprono la porta per mostrare le loro ferite, nel corpo e nell’anima, che racconterò in decine di inchieste e reportage. E, insieme, prende corpo la determinazione di magistrati con la schiena dritta, disposti a fronteggiare le aggressioni permanenti di una classe politica asservita al tornaconto privato. Gli ultimi ad aprire gli occhi, e a raccontare i fatti, sono stati fin troppi giornalisti disposti a farsi orchestrare dall’addetto alla relazioni esterne dell’azienda fornito di un budget cospicuo, con cui far fronte alle “debolezze umane” dei suoi interlocutori e salvare il gruzzolo alla famiglia Riva (che continua a macinare soldi trafficando in carbone per produrre acciaio).

Apprendo della sentenza letta alle 10:45 del 31 maggio dalla presidente della Corte d’Assise, Stefania d’Errico. Mi sento per alcuni lunghissimi minuti tarantino anch’io. E mi torna in mente l’articolo che scrissi di getto alla fine di una giornata che mi segnò nel profondo. Era mercoledì 28 novembre 2012. Partirono anche le felpate pressioni aziendali sull’episodio più scioccante di quel racconto televisivo: i Riva avevano trovato orecchie attente ai piani alti della Rai; in redazione, ad “Ambiente Italia”, Beppe Rovera ed io tenemmo però botta: quei vertici se la legarono al dito e agirono qualche tempo dopo, ma questa è un’altra storia. Quel testo di nove anni fa ve lo ripropongo qui di seguito.


Il neonato con tre giorni di vita e un tumore alla prostata

La Procura di Taranto ha contato 386 morti e 1421 malati di tumori e leucemie in tredici anni; negli ultimi quattro l’Ilva ha fatto invece 2 miliardi e mezzo di utili. Il braccio di ferro non è tra magistratura e politica, ma tra impunità connivenze istituzionali e legge: tra il “sistema Riva” la salute e la Costituzione italiana

Cittadini di Taranto manifestano contro l’inquinamento dell’Ilva 

Taranto, 28.11.2012 (Igor Staglianò) − «La settimana scorsa ho diagnosticato due tumori al cervello a due bambini, uno di otto e l’altro di dieci anni», mi dice quasi sottovoce Giuseppe Merìco, primario nel reparto di pediatria dell’ospedale Santissima Annunziata a Taranto. «Dall’inizio dell’anno, sono già cinque — aggiunge —; un neonato di tre giorni aveva un tumore alla prostata. Tumore alla prostata, a tre giorni di vita», ripete davanti alla mia stupìta incredulità. Prima che mercoledì 28 novembre alle 10.30 del mattino la tromba d’aria piegasse come fuscelli tralicci d’acciaio di 80 metri, il mio viaggio nel dramma della città dei Due Mari era cominciato così, a poche ore dalla chiusura dell’Ilva. «Una rappresaglia contro le decisioni della magistratura», mi dice un operaio davanti ai tornelli dell’acciaieria mentre un migliaio di suoi compagni di lavoro sono raccolti in assemblea di là dei cancelli.

La settimana s’era aperta all’alba di lunedì 26 con la retata della Guardia di Finanza. Sette arresti, fra cui un consulente della pubblica accusa, per essersi lasciato corrompere con diecimila euro dall’Ilva. E poi decine di indagati, fra cui il segretario del vescovo della città, per aver dichiarato il falso su cosiddette beneficienze. Per far capire di che pasta è fatto il rampollo del ragionier Emilio Riva, padrone dell’acciaieria più grande d’Europa, il procuratore capo Franco Sebastio nella conferenza stampa cita un’intercettazione di Fabio Riva, l’ultimo ancora a piede libero: forse a Miami, forse a Santo Domingo, non si sa dove. «Due tumori in più? Una minchiata», scandisce il magistrato, leggendo un solo rigo delle 600 pagine dell’ordinanza del Gip Patrizia Todisco, dopo aver chiesto scusa alle giornaliste presenti per l’espressione scurrile dell’intercettato.

Conferenza stampa del procuratore capo Franco Sebastio il 26 novembre 2012

Il capo della Procura aveva appena citato anche altro. È questo il passaggio chiave delle argomentazioni del giudice per le indagini preliminari del Tribunale: «La salute e la vita umana sono beni primari dell’individuo, la cui salvaguardia va assicurata in tutti i modi possibili. Per cui […] non si potrà mai parlare di un’esigibilità tecnica o economica quando è in gioco la tutela di beni fondamentali di rilevanza costituzionale quali il diritto alla salute. Al quale diritto alla salute lo stesso art. 41 della Costituzione condiziona la libera attività economica».

Eccola qui, la pietra dello scandalo del cosiddetto conflitto fra poteri dello Stato, tra governo e magistratura. Quella su cui il ministro dell’Ambiente Corrado Clini minacciò un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale alla vigilia di ferragosto. E ci va un bel coraggio a definire il sequestro della produzione d’acciaio effettuata dall’Ilva, violando le prescrizioni di un giudice, come un braccio di ferro del Gip col governo. Che a dirlo sia un ministro rende il quadro solo più grave. Il cosiddetto “sistema Riva” ha prodotto, per capirci, 2 miliardi e mezzo di utili negli ultimi quattro anni, lasciando sul campo 386 morti e 1421 malati di tumori e leucemie, molti bambini: tanti ne ha contati, in tredici anni, la Procura di Taranto. Sono cifre di una guerra. E, anziché valutare come un assist l’inchiesta della magistratura per sfondare il muro di omertà e connivenze costruito dal sistema Riva a Taranto (e a Roma), il ministero dell’Ambiente l’assist lo dà, da mesi, alle resistenze della proprietà e dell’ex prefetto Bruno Ferrante messo a capo dell’azienda dal padrone italiano delle ferriere.

L’autorizzazione integrata ambientale del 2011 fu fatta sotto dettatura dei capi dell’Ilva

Per essere ancora più chiari. Nell’estate del 2011 il ministero dell’Ambiente rilasciò l’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) fatta sotto dettatura, accusa la procura sulla base delle intercettazioni tra i capi dell’Ilva e i funzionari ministeriali. Il presidente della commissione Aia era Dario Ticali neo laureato all’istituto privato Kore di Enna, un ventinovenne esperto di ghiaia nelle pavimentazioni stradali. L’autorizzazione fu firmata dal ministro Stefania Prestigiacomo che aveva innalzato Ticali a così alta e immeritata responsabilità. All’epoca Corrado Clini era direttore generale della Prestigiacomo. Pur non avendo responsabilità dirette nella procedura precedente, come ha affermato più volte, può il titolare dell’attuale dicastero ignorare cosa c’è alle spalle della protervia della famiglia Riva? Anche la nuova Aia, deliberata da lui stesso il 26 ottobre recependo le prescrizioni del giudice, è rimasta difatti lettera morta. Per un altro mese, mentre i veleni sono continuati a piovere sulla città e nelle falde idriche. Nessuna collaborazione vera dall’azienda, solo e sempre una sfida aperta all’inchiesta giudiziaria. Cosa doveva fare la magistratura lunedì 26 novembre se non sequestrare il corpo del reato? mi spiega a microfoni spenti il procuratore Franco Sebastio. Poteva la procura chiudere gli occhi?

In effetti, istituzioni e organi d’informazione lo sguardo l’hanno volto quasi sempre altrove. Fino allo shock del primo sequestro e dei primi arresti domiciliari, il 26 luglio di quest’anno. Poi la seconda retata di quattro mesi dopo, e ora il decreto. «Una “legge ad aziendam” per dissequestrare l’Ilva senza bonificare? I tarantini si sentirebbero accerchiati, come a Saigon», ha osservato alla vigilia del Consiglio dei ministri il direttore dell’Arpa Puglia, Giorgio Assennato. In tal caso, ci dice il procuratore capo, la legge è legge e sarà applicata (l’Aia era invece solo un atto amministrativo, sottolinea Sebastio). Salvo probabili ricorsi alla Corte costituzionale.

In Germania Riva Group rispetta gli standard ambientali, in Italia no. Perché?

Restano aperte allora tante altre domande. «Riva Group ha due stabilimenti anche in Germania e rispetta standard ambientali molto più severi dei nostri. Perché in Italia no?» mi chiedevano i delegati Fiom Francesco Bardinella, Ignazio De Giorgio e Francesco Brigati davanti alla fabbrica poco prima del tornado. «Il governo Berlusconi ha alzato i limiti europei alle emissioni di benzoapirene, cancerogeno e genotossico, anziché farli applicare», aggiunge Brigati. Ed ora − come e più delle trombe di Gerico − il tornado ha percosso le mura dell’Ilva con la forza di un Eolo furioso inseguito da un Nettuno in collera. Una vendetta contro la hybris di un governo in cui il ministro dell’Ambiente sembra quello dell’Industria e quello dell’Industria si defila alla chetichella. A pensarlo sono oggi molti tarantini memori delle loro radici elleniche. Ed è nell’Italia di oggi che un ex prefetto firma ricorsi contro la magistratura per conto di una famiglia miliardaria, col padre agli arresti domiciliari e il figlio latitante.

Gli operai sono costretti invece a interrogarsi con angoscia sul prossimo stipendio. E i medici sulla prossima diagnosi. «È terribile dover comunicare ai genitori che il loro piccolo ha un tumore, guardarli negli occhi mentre ascoltano. Un lavoro ingrato», conclude il dottor Giuseppe Merìco, abbassando i suoi occhi davanti alla mia telecamera. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Direttore - Da inviato speciale della Rai, ha lavorato per la redazione Speciali del Tg1 (Tv7 e Speciale Tg1) dal 2014 al 2020, per la trasmissione “Ambiente Italia” e il telegiornale scientifico "Leonardo" dal 1993 al 2016. Ha realizzato più di mille inchieste e reportage per tutte le testate giornalistiche del servizio pubblico radiotelevisivo, e ha firmato nove documentari trasmessi su Rai 1, l'ultimo "La spirale del clima" sulla crisi climatica e la pandemia.