31 maggio 2021, la presidente della Corte d’Assise di Taranto Stefania d’Errico legge la sentenza  

Dopo 329 udienze durate cinque anni è arrivata la sentenza di primo grado sul disastro ambientale della più grande acciaieria d’Europa: 22 anni a Fabio Riva, 20 al fratello Nicola, 21 a Girolamo Archinà, 3 anni e 6 mesi a Nicki Vendola, 3 anni all’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido. 21 anni all’ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso, 2 per l’ex direttore di Arpa Puglia, Giorgio Assennato. A Ilva è stata comminata una sanzione di 4 milioni di euro e confiscata l’area a caldo dello stabilimento. In questo excursus, il coordinatore dei Verdi (parte civile nel processo) ne ripercorre le tappe


L’analisi di ANGELO BONELLI, coordinatore nazionale dei Verdi

Lo stabilimento Ilva di Taranto addossato al quartiere popolare Tamburi

IL 26 LUGLIO DEL 2012 il Gip Patrizia Todisco conferma il sequestro dell’Ilva e le richieste di ordinanze di custodia cautelare e avvisi di garanzia per il disastro ambientale causate dall’acciaieria, chieste dalla Procura di Taranto, e scrive: «Le persistenti, gravissime inerzie accertate nel corso delle indagini, costituiscono solo il frutto di una pervicace politica aziendale ispirata esclusivamente dalla logica del profitto, a detrimento della tutela dell’ambiente e della salute dei lavoratori e dei cittadini». Negli anni la diossina ha contaminato la catena alimentare e la vita delle persone. Secondo il registro delle emissioni, che allora si chiamava Ines, nel periodo tra il 2005 e il 2007 il 93% della diossina e il 67% del piombo immessi in atmosfera in Italia veniva dall’Ilva di Taranto. Solo nel 2011 l’Ilva ha emesso dai propri camini oltre 4mila tonnellate di polveri, 1 tonnellata e 300 chili di benzene e 338,5 chili di Ipa (Idrocarburi Policiclici Aromatici).

Nonostante questo, nessuna istituzione si è attivata per realizzare le indagini epidemiologiche allo scopo di verificare la relazione tra mortalità e inquinamento e studi sulla contaminazione della catena alimentare. Era un atto dovuto, ma nessuno lo fece. Quel che avrebbero dovuto fare le istituzioni preposte lo fecero dei cittadini. Nel gennaio del 2008 Piero Motolese, ex operaio Ilva, e Alessandro Marescotti, professore di Lettere, portarono a proprie spese al laboratorio Inca di Lecce − uno dei pochissimi attrezzati per la ricerca sulla diossina −  una forma di formaggio prodotto con il latte delle pecore al pascolo intorno all’Ilva. I risultati furono chiari e drammatici: il formaggio era contaminato da grosse quantità di diossina.

Pecore contaminate dalla diossina uscita dalle ciminiere dell’Ilva

A febbraio 2008 Motolese e Marescotti presentarono denuncia e da lì l’autorità sanitaria, che fino ad allora era stata inerte nonostante quelle verifiche rientrassero fra le sue competenze, ordinò l’abbattimento di circa 2.000 capi di bestiame perché contaminate da diossina. Vincenzo Fornaro, un allevatore che subì l’abbattimento di 1.000 pecore, presentò, nel 2009, una denuncia alla Procura della Repubblica di Taranto: da quelle denunce partì l’inchiesta “Ambiente Svenduto”.

La Regione Puglia nel 2008 approvava la legge sulla diossina che fu concordata con il governo Berlusconi, introducendo un limite di 0,4 ng/mc (nanogrammi al metro cubo) anche se in alcuni paesi europei come la Germania i limiti erano all’epoca più stringenti: 0,1 ng/mc. I controlli e le sanzioni previsti da quella norma non furono mai applicati, a partire dal monitoraggio in continuo: è come mettere un semaforo e non farlo funzionare.

Nel luglio del 2011 venne emessa dal ministero dell’Ambiente, anche con il parere positivo della Regione Puglia, l’Autorizzazione Integrata Ambientale e questo accadde nonostante i carabinieri del Noe di Lecce avessero informato il ministero dell’Ambiente, la Regione Puglia e la Procura di Taranto delle gravi violazioni ambientali che avvenivano all’interno dello stabilimento siderurgico. Nell’autorizzazione c’erano profili e rilievi di forte illegittimità: scompariva la rete Monitoraggio esterna alla cokeria, importante per rilevare le emissioni di Ipa (Idrocarburi Policiclici Aromatici) e del pericolosissimo benzo(a)pirene; venivano aumentati i limiti per i macroinquinanti, tra cui le polveri, ossidi di azoto e di zolfo; non era previsto il monitoraggio in continuo degli Ipa; veniva aumentata la capacità produttiva di 15 milioni di tonnellate a cui sarebbe corrisposto un aumento dell’inquinamento; non era previsto il campionamento in continuo della diossina che avrebbe consentito di controllare 24 ore su 24.

Dal 26 luglio del 2012, giorno del sequestro, sono passati quasi 9 anni e per garantire la continuità produttiva sono stati emessi dai vari governi ben 13 decreti Salva Ilva, che hanno sospeso i diritti dei cittadini e prorogato sine die l’applicazione delle leggi a tutela ambientale e quindi della salute. Ancora oggi l’Autorizzazione Integrata Ambientale, modificata nell’ottobre del 2012, è prorogata per effetto di quei decreti. Nel 2018 nella masseria Fornaro si registrarono valori di diossine pari a 7,06 teq picogrammo per metro quadrato die: un aumento pari al 916% rispetto all’anno precedente.

Travolto da ghisa incandescente, Alessandro Morricella muore dopo quattro giorni di agonia

Quando nel dicembre 2008 furono abbattuti i capi di bestiame il valore era di 8 picogrammi, mentre nel quartiere Tamburi/Orsini si registrava un valore pari 5,5 picogrammi. Dopo questo picco di diossina la Procura di Taranto aprì un’inchiesta che fu fermata dagli effetti dello scudo penale voluto dal governo Renzi. Il 12 giugno del 2015 morì l’operaio Alessandro Morricella dopo 4 giorni di atroce agonia: era stato travolto da una colata di ghisa incandescente, la Procura di Taranto sequestrò gli impianti, ma l’allora ministro Carlo Calenda firmò il decreto 92/2015 che all’art. 3 disponeva il dissequestro dell’impianto che aveva provocato la morte a Morricella. La Corte Costituzionale con sentenza 58/2018 dichiarò illegittimo l’art. 3 voluto dal ministro perché violava l’art. 32 e 41 della Costituzione e la preminenza del diritto alla sicurezza sul lavoro.

Essere bimbi a Taranto ed in particolare nel quartiere Tamburi è dura, molto dura. I dati delle indagini epidemiologiche su Taranto sono drammatici, ma in quel quartiere lo sono di più. Mentre i dati complessivi della città di Taranto rispetto alla media pugliese sono di +54% di incidenza delle malattie tumorali nei bambini e +21% di mortalità infantile (0-14 anni), nel quartiere Tamburi e in un altro quartiere, Paolo VI, il dato risulta maggiore del 70% rispetto alla media cittadina. A proposito del quartiere Tamburi, c’è chi ha sostenuto, quasi a colpevolizzare la popolazione, che sia stato costruito dopo l’acciaieria. Quando fu posata la prima pietra per la costruzione del polo siderurgico di Taranto, 9 luglio 1960, il quartiere Tamburi esisteva da oltre dieci anni, sorgeva su una collina che rendeva, proprio per la sua posizione geografica, l’aria molto salubre. Ironia della sorte, l’ospedale Testa di Taranto fu costruito lì proprio per questa ragione: la salubrità dell’aria e le caratteristiche climatiche che favorivano la cura delle malattie polmonari.

Le case popolari del Quartiere Tamburi coperte dalle polveri dello stabilimento siderurgico

C’è stata una dura battaglia in questi anni per contrastare chi affermava che l’inquinamento dell’Ilva non faceva male alle persone. L’ex commissario Ilva Enrico Bondi nel luglio del 2013, in una relazione inviata alla Regione Puglia, scriveva: «È erroneo e fuorviante attribuire gli eccessi di patologie croniche oggi a Taranto, a esposizioni occupazionali e ambientali occorse negli ultimi due decenni». L’Ilva non ha colpe, i fattori responsabili per le malattie e i decessi per tumore a Taranto sarebbero altri: «Fumo di tabacco e alcol, nonché difficoltà nell’accesso a cure mediche e programmi di screening».

Bondi non è un caso isolato e alcune settimane fa l’attuale ministero per la Transizione ecologica guidato da Roberto Cingolani, nella memoria inviata al Consiglio di Stato contro la decisione del Tar di Lecce che accoglieva l’ordinanza sindacale contingibile ed urgente del 27 febbraio 2020 firmata dal sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, scriveva: «Il Tar Lecce, senza il dovuto approfondimento tecnico, sembra aver valutato, come ormai incontrovertibile un rapporto tra emissioni inquinanti e determinate patologie». Il ministero ex Ambiente, invece di intervenire per riportare nella norma di legge gli sforamenti e prevedere il monitoraggio di sostanze come naftalene e particolato Pm10 e Pm 2,5, ha prorogato ulteriormente le procedure, consentendo nel frattempo la prosecuzione dell’attività non intervenendo sull’inquinamento.

È la fine 2018 quando arriva ArcelorMittal a gestire Ilva, grazie alla decisione di Calenda presa agli inizi dell’anno. ArcelorMittal dopo la firma dell’accordo nel settembre del 2018, in appena due anni, a Taranto cambia tre volte il piano industriale per poi arrivare nei mesi scorsi ad un accordo con Invitalia per una sorta di nazionalizzazione dell’Ilva, facendo così un grande affare. Anziché pagare 180 milioni di euro l’anno per il contratto di affitto e 1,8 miliardi di euro per l’acquisto definitivo, come previsto dal contratto iniziale, ArcelorMittal investirà 70 milioni di euro mentre lo Stato oltre 1 miliardo di euro che si andranno ad aggiungere ai 2,6 miliardi di soldi pubblici provenienti dalla confisca per evasione fiscale di 1,3 miliardi dei Riva, oltrea i vari prestiti concessi nei diversi decreti legge salva Ilva. Nell’accordo con Invitalia sono previste, incredibilmente, delle condizioni sospensive che sono: la revoca dei sequestri penali sull’acciaieria e l’assenza di misure restrittive nei confronti di Acciaierie d’Italia o sue consociate.

Nel reparto di oncologia infantile dell’ospedale di Taranto

Non c’è e non ci sarà nessuna aula di tribunale che potrà fare giustizia per il dolore versato dalle famiglie tarantine e le vite umane perse. La vicenda tarantina è il simbolo del fallimento della politica italiana che ha gridato allo scandalo, accusando che era la magistratura a fare la politica industriale, quando il vero scandalo era lei, che nulla ha fatto contro i veleni e il dramma tarantino. Alle istituzioni italiane è mancata, e manca, una visione strategica del futuro dal punto di vista industriale, a differenza di quanto fatto a Bilbao, Pittsburgh e la Ruhr dove hanno realizzato imponenti progetti di conversione industriale in chiave ecologica, rilanciando occupazione, economia e tutelando la salute.

È nato a Roma e ha iniziato a far politica con i Verdi ad Ostia sul litorale romano. È stato presidente della XIII circoscrizione di Ostia-Roma, avviando una politica di rispristino della legalità attraverso la demolizioni di ville abusive costruite nelle zone vincolate. Nel 2005 è eletto consigliere regionale e presidente della commissione per la lotta alla criminalità; subisce diversi attentati e nel 2006 è eletto deputato ricoprendo l’incarico di presidente del gruppo parlamentare. È stato portavoce dei Verdi dal 2010 al 2015. Su proposta delle associazioni ambientaliste locali, nel 2012 si candida a sindaco della città di Taranto e raccoglie il 12% dei consensi. Con alcuni esposti alla magistratura tarantina ha consentito l’apertura dell’inchiesta "Ambiente Svenduto" nel cui processo la federazione dei Verdi si è costituita parte civile. Attualmente ricopre la carica di coordinatore nazionale dei Verdi