Siamo penultimi nella classifica europea di laureati, con il 27,6%, dopo Repubblica Ceca, Ungheria, Croazia e Bulgaria; peggio di noi c’è solo la Romania, ferma al 25,8%, contro una media Ue del 41,6%. In Italia c’è un docente ogni 20,4 ragazzi e il declino è iniziato con la legge Gelmini; nel resto d’Europa c’è un docente ogni 12/15 ragazzi. L’inadeguatezza del sistema aggrava il gap formativo di molti giovani che accedono all’università senza sufficienti competenze di base. Alle prese con una giungla di contratti, sui ricercatori pesa la burocrazia e il protettorato baronale, che predilige la fedeltà al merito


L’analisi di ANNA MARIA SERSALE

La “valutazione oggettiva” si è rivelata un peso senza dare vantaggi

L’UNIVERSITÀ È STATA tradita. Dalla politica neoliberista che ha fatto riforme sbagliate, da una classe di docenti che non si è opposta alle logiche di mercato e da un apparato burocratico che ha penalizzato la libertà di ricerca e di insegnamento, inseguendo il feticcio dell’efficienza produttiva come se gli atenei fossero una società per azioni. Il mito ossessivo della valutazione − con questionari, schede, verifiche, crediti, rendicontazioni − è figlio di una burocrazia ipertrofica sviluppatasi nell’ultimo ventennio, subìta dai docenti come un’intollerabile vessazione. Il sistema di “valutazione oggettiva” (secondo parametri e indicatori fissati da una pletora di organismi) si è rivelato un peso senza dare vantaggi. Per migliorare i risultati ci vuole altro: grossi investimenti, ripristino di un adeguato Fondo di finanziamento ordinario delle università, infrastrutture, laboratori attrezzati e moderni e soprattutto un piano per reclutare nuovi docenti. 

Ma proprio sul reclutamento dei docenti e sul pre-ruolo ora si gioca una partita decisiva. In Parlamento in questi giorni è in discussione una legge di riforma. Il testo è in prima lettura alla VII Commissione cultura della Camera. Poi andrà in Senato. Si prevedono tempi brevi perché il governo preme e preme la ministra dell’Università Maria Cristina Messa. Ma i sindacati muovono critiche pesanti. «Il progetto di riforma va nella direzione opposta rispetto alle richieste dei docenti», avverte Marco Merafina, per la Uil coordinatore nazionale della docenza universitaria: «Accentua il problema del precariato senza risolverlo, in quanto è stata mancata l’ennesima occasione di semplificare il quadro normativo. Oggi c’é una giungla di contratti per ricercatore di tipo A, di tipo B, e così via, tra cui anche contratti post-doc. Ci sono giovani “ricattati”, accetti questo o te ne vai fuori. È una vera follia. Occorre una figura unica pre-ruolo, dotata di tutte quelle tutele sindacali che il precariato non contempla». Così i nostri cervelli se ne vanno all’estero perché hanno più possibilità di lavoro e più mezzi per la ricerca. In Italia il sistema è ingessato. Sui ricercatori pesa la burocrazia e il protettorato baronale, che non garantisce il merito, ma predilige la fedeltà al maestro. Da qui le distorsioni e i trucchi che inquinano tanti concorsi a cattedra.

Secondo i dati Istat del 2020, solo il 14,3% degli italiani ha conseguito il titolo accademico

In Europa siamo penultimi in classifica per percentuale di laureati, con il 27,6%, dopo Repubblica Ceca, Ungheria, Croazia e Bulgaria, seguiti solo dalla Romania, ferma al 25,8%, contro una media Ue del 41,6% (dati Eurostat 2019, riferiti a persone di 30-34 anni di età). Anche se in Italia la quota dei giovani con una laurea è aumentata costantemente nell’ultimo decennio, tra i 27 Paesi dell’Ue siamo comunque il fanalino di coda, mentre gli altri hanno superato il traguardo prefissato del 40% di laureati. Se poi prendiamo in considerazione il censimento Istat del 2020 che esamina l’intera popolazione, si scopre che solo il 14,3% degli italiani ha conseguito il titolo accademico. Un fenomeno, questo, che ha radici antiche. Legato alla persistente difficoltà in Italia di entrare nel mondo del lavoro, ma soprattutto legato agli alti tassi di abbandono: circa il 20% delle matricole non si iscrive al secondo anno, con punte che toccano il 40% in alcuni atenei. Dati che il Covid farà peggiorare. Le cause profonde della fuga sono davvero molte, ma incidono anche fattori noti da tempo. Per esempio, lo squilibrio nel rapporto tra studenti e insegnanti: abbiamo un docente ogni 20,4 ragazzi. Questo dato conferma due cose: da troppi anni non investiamo e non assumiamo, il declino è iniziato con la legge Gelmini, mentre nel resto d’Europa nelle aule universitarie c’è un docente ogni 12/15 ragazzi, vedi il caso di Francia e Germania. 

L’inadeguatezza del sistema aggrava anche il gap formativo di molti giovani che accedono all’università senza avere sufficienti competenze di base, perché la scuola non li ha preparati, oppure perché hanno sbagliato nella scelta del corso di laurea. Altra causa del declino è la scarsità dei finanziamenti pubblici. Ai 67 atenei statali sono stati fatti tagli su tagli, sulla didattica e sulla ricerca, con risultati disastrosi. Ora si sta rimediando con 15 miliardi di euro previsti dal Pnrr. Ma al momento su quest’ultimo punto siamo difronte, purtroppo, solo a generiche enunciazioni.

Il Pnrr prevede un aumento dei dottorati e partenariati tra università e centri di ricerca

Nel Piano di ripresa e resilienza siamo di fronte a un lungo elenco di temi che va dalla ricerca di base a quella applicata, dall’aumento dei dottorati (alcuni destinati alla pubblica amministrazione e altri ai settori innovativi) alla qualificazione della didattica e all’orientamento per l’ingresso nel mondo del lavoro, dai processi di innovazione ai partenariati tra università e centri di ricerca, al finanziamento di proposte nate dai giovani ricercatori. Un mare di roba. Fino ad arrivare al welfare studentesco, su cui qualche anticipazione c’è: entro i prossimi 5 anni aumenteranno l’importo e il numero delle  borse di studio e nelle case dello studente aumenteranno i posti per alloggiare i fuorisede, portandoli da quarantamila ad oltre centomila. 

La qualità dei nostri laureati è buona e sono molto apprezzati all’estero dove vengono assunti volentieri, ma non basta avere delle eccellenze. Le sfide del dopo Covid richiedono che l’intero sistema universitario sia in grado di sfornare laureati pronti a competere. «Ma per innalzare i livelli − osserva Marco Merafina della Uil – dovremo vigilare sulla pianificazione e sull’impiego delle risorse previste dal Pnrr. Altrimenti rischiamo un flop che potrebbe compromettere il futuro della nostra università e dei nostri giovani». Bisogna affrontare le criticità, ci sono le condizioni per ricominciare, sarebbe davvero terribile non farlo. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Giornalista professionista, ha lavorato al “Messaggero” dal 1986 al 2010. Prima la “gavetta” in Cronaca di Roma, fondamentale palestra per fare esperienza e imparare il mestiere, scelto per passione. Si è occupata a lungo di degrado della città, con inchieste sugli abusi che hanno deturpato il centro storico. Dal 1997 ha lavorato alle Cronache italiane, con qualifica di vice caposervizio, continuando a scrivere. Un filo rosso attraversa la sua carriera professionale: scuola, università e ricerca per lei hanno sempre meritato attenzione, con servizi e numerose inchieste.