Qui in alto, la Torre dei Moro dopo l’incendio; sotto il titolo, le fiamme divorano le vele (pannelli in plastica) che rivestono il palazzo di 67 metri d’altezza

L’incendio che ha distrutto la Torre dei Moro di Milano il 29 agosto 2021 (e dove non ci sono state vittime solo perché il palazzo era quasi deserto) ha fatto pensare a un altro incendio, quello che colpì la Grenfell Tower di Londra, dove il 14 giugno 2017 morirono 74 persone. Un primo dato in comune tra i due edifici: entrambi sono alti 67 metri, e il fuoco li ha “divorati” con rapidità. E un secondo dato: erano “protetti” dagli stessi pannelli per rivestire le facciate. E cioè sottilissimi fogli di polietilene ricoperti di alluminio che, guarda caso, erano presenti anche su altre strutture distrutte dal fuoco in tutta Europa nel recente passato. A Milano l’inchiesta è stata avviata rapidamente, al punto che gli inquirenti britannici, per la tragedia della Grenfell Tower, hanno chiesto di incontrare i magistrati italiani


L’inchiesta di MAURIZIO MENICUCCI, da Milano

LA CASA BRUCIA e ormai lo sappiamo molto bene, anche se preferiamo chiudere gli occhi. Qui non si parla, però, della metaforica casa di tutti, quella Terra che stiamo cercando di rovinare con le nostre emissioni, ma di quell’altra, letterale, dove viviamo, lavoriamo e ci sentiamo più protetti: un’illusione pericolosa, perché, dicono le cronache, la resistenza alle fiamme è troppo spesso l’ultimo dei requisiti presi in considerazione da chi costruisce, da chi vende e anche da chi acquista con gli occhi bendati. Comune a molti Paesi, il fenomeno emerge, molto acuto, anche in Italia, dove, denuncia la Procura di Milano, molti palazzi di recente costruzione, benché certificati a prova d’incendio, non aspettano altro che un corto circuito, o una cicca, per ardere come torce. Se non peggio, perché una torcia si può sempre spegnere, mentre alla Grenfell Tower di Londra, dove il 14 giugno 2017 morirono intossicate o arse vive 74 persone, tra cui gli studenti italiani Marco Gottardi e Gloria Trevisan; e alla Torre dei Moro, di Milano, dove il 29 agosto 2021 nessuno perse la vita solo perché era quasi deserto, le fiamme divamparono così rapide che nessuno riuscì a domarle. 

«Si estinsero da sole, quando tutto quel che poteva alimentarle si era consumato», scrive l’inglese Frances Mary Peacock, tra i primi studiosi, con l’italiano Filiberto Lembo, ad analizzare le singolari analogie di questi due roghi: stessa altezza degli edifici, 67 metri; stessa velocità nell’attaccare gli interni; stessa capacità di produrre micidiali fumi di acido cianidrico; ma, soprattutto, stessi pannelli per rivestire le facciate: sottilissimi fogli di polietilene ricoperti di alluminio che, guarda caso, erano presenti anche su altre strutture distrutte dal fuoco in tutta Europa nel recente passato: King’s Cross a Londra, nell’87; Knowsley Heights a Liverpool, con 31 vittime, nel 1991, Ilk Yardim Ospita di Istanbul, nel 2018, e Olympus Tower di Grozny, in Cecenia, nel 2013. Sembra, però che gli Inglesi, già prima del disastro di Grenfell, avessero avuto segnalazioni di analoghi incendi a casa loro e  in tutto il mondo, ma specialmente negli Emirati Arabi Uniti e in Cina, dove negli ultimi decenni sono spuntati migliaia di colossali quanto improbabili asparagi di cemento.

Milano, 30 Agosto 2021. La gente del quartiere osserva la Torre dei Moro in via Antonini  il giorno dopo l’incendio che l’ha distrutta; il palazzo era vuoto e non ci fu nessuna vittima (credit Ansa / Matteo Corner)

Il professor Lembo, docente di tecnologia del Restauro all’Università ‘Roma Tre’ e autore di una montagna di pubblicazioni sulla sicurezza in architettura, va oltre: «Non è azzardato sostenere che in Europa almeno un incendio al giorno sia causato da questi prodotti scadenti o illegali». Secondo lui, la facilità con cui bruciano dipende dall’anima in plastica, che trascina verso il basso la resistenza dei metalli al calore: «Consideriamo che la temperatura tipica di un incendio è 800 gradi: l’alluminio fonde a 600, ma a contatto con il polietilene, comincia a rammollirsi a temperature molto più basse e può influenzare anche le parti in acciaio dell’edificio, che si degradano e deformano già a 435 gradi». Determinante, per quest’effetto ‘innesco’, è anche il contributo del design: la  moda, cioè, di montare i pannelli a circa un metro di distanza dalle pareti, creando quelle che gli architetti chiamano vezzosamente “le vele”.

Destinate, in teoria, a ventilare l’edificio, mantenendolo fresco d’estate e caldo d’inverno, e forse anche belle, almeno come vistoso status symbol per chi vi abita, le vele fatte con i pannelli fuorilegge covano, però, l’ennesima insidia. L’intercapedine che formano con la parete, in caso d’incendio, finisce per ’tirare’ come un camino, che confinando il calore, fa impennare la temperatura e trasporta all’istante fiamme, vapori e materiale fuso lungo l’intera colonna. E non è tutto, perché a moltiplicare il rischio provvedono altri due elementi progettuali: prima «la lunghezza delle vele rispetto alle facciate, che crea i cosiddetti angoli introversi, capaci, secondo la letteratura, di allargare le fiamme»; poi, «la tecnica di unire mediante semplici ganci i pannelli, che le vampate strappano facilmente e fanno volare, appiccando il fuoco dovunque», spiega Lembo, che di vele è anche tra i più esperti progettisti.

La Torre dei Moro fotografata dall’alto il giorno dopo l’incendio che l’ha distrutta in poche ore

Il seguito della storia dei ‘palazzi nati per bruciare’, lo ha scritto Marina Petruzzella, uno dei pochi magistrati italiani specializzati in incendi, che fin dalle prime ore ha indagato sul rogo alla Torre dei Mori di via Antonini a Milano. Grazie a decine di perizie, è riuscita a tradurre in cifre il paradossale ‘effetto cerino’ dei pannelli antifuoco. Poi, raccogliendo una montagna di prove, ha scoperto chi, quel cerino, lo teneva in mano e chi ha fatto finta di non vedere. E se metodo e intuito hanno guidato il suo lavoro per più di un anno, non meno evidente è il coraggio con cui, in un mondo capace di erigere muri di silenzio più solidi di quelli di cemento, ha fatto emergere un intreccio di responsabilità incredibile anche per un Paese come il nostro, dove l’ennesimo sudario di fango a Ischia urla una volta di più che i disastri naturali sono sempre aiutati da corruzione, speculazione e ignoranza.

E non è un caso se, pochi giorni fa, i giudici di Londra, stupiti dalla velocità con cui si sono mossi i colleghi milanesi, hanno chiesto di incontrarli. Oltre Manica, il cammino degli inquirenti, nonostante il terribile bilancio umano, o forse proprio per quello, appare molto più impervio dal punto di vista politico, come dimostra già il fatto che la vicenda di Grenfell, seguita, in parallelo — ma c’è chi dice rallentata — da una Commissione parlamentare istituita ad hoc, andrà a giudizio solo nel 2025. A sollevare, poi, altri dubbi sulle reali possibilità di fare giustizia, contribuiscono due ‘fattori ambientali’ in grado di condizionare le indagini. Il primo è la diffusione dei problemi antincendio in una metropoli dove, negli ultimi vent’anni, interi quartieri si sono votati a passo di carica al lifting verticale con materiali che, stando ai periti italiani, «potrebbero suscitare l’interesse di un novello Nerone». L’altro è il gravissimo errore di far restare i residenti nei loro appartamenti in attesa dei soccorsi. Come ha ripetuto la stampa britannica in questi giorni, «l’invito delle fire brigades, i pompieri inglesi, è diventato una condanna a morte per ognuna delle 74 vittime, perché si sapeva da tempo che, quando le fiamme partono dalle vele, si propagano agli interni in pochi minuti».

Le fiamme distruggono il rivestimento esterno in materiale plastico del Grenfell Tower di Londra

Dunque, l’inchiesta milanese sul rogo miracolosamente senza lutti della Torre di via Antonini è un caso di scuola anche per gli Inglesi. E lo è, prima di tutto, perché i diciotto da poco rinviati a giudizio coprono, del loro ramo d’impresa — quello immobiliare — tutti i ruoli, tecnici e commerciali, privati e pubblici, e tutti i possibili illeciti, anche se l’accusa capitale è di disastro colposo. Al posto d’onore nell’elenco dei reprobi, i proprietari e il personale dell’azienda Moro, che ha costruito la Torre e venduto gli appartamenti e i due top manager della spagnola Alucoil, produttrice dei Larsen PE, i pannelli che incarnano le peggiori qualità incendiarie della loro categoria.

Poi, ci sono responsabili e dipendenti della marchigiana Cantori, concessionaria Alucoil per l’Italia, e della veneta Zambonini, progettista ed esecutrice delle vele. Non mancano due dirigenti dei vigili del fuoco di Milano che, «violando gravemente gli obblighi di diligenza e perizia del ruolo», avevano certificato l’idoneità antincendio dell’immobile andato in fumo. Intorno a loro, intermediari, tecnici e consulenti, in una catena di competenze messa a punto, si direbbe, più per diluire le responsabilità, che per validare la qualità dell’edificio. «Non sapevamo», avevano risposto, come al solito, ai primi addebiti. Invece, i colloqui intercettati sia dopo il rogo londinese, sia dopo quello milanese, li rivelano tutti ben consapevoli dei difetti dei Larsen PE e altrettanto acquattati in un reciproco patto di silenzio. Non di meno, quando si era trattato di costruire e di vendere, lo dicono testimoni e documenti, questa cupola di eminenti palazzinari lombardi e dei loro complici si sarebbe mostrata preoccupata solo di risparmiare all’osso sui materiali. Sulla sicurezza, nulla, mai una parola, quando, per ottenerla, sarebbe bastato aggiungere una manciata di centesimi: novantacinque a pannello, qualche migliaio di euro per l’intero palazzo. E senza andare lontano, perché la stessa Alucoil ha in catalogo anche i Larsen FR, che significa Fuoco Ritardanti.

Gli atti dell’inchiesta, vero spaccato di malcostume, sono una scenografia già scritta e pronta per la mano di un grande regista. Vi si legge che non appena gli spagnoli vengono a sapere che la Torre dei Moro è alta quei fatidici 67 metri di Grenfell, si allarmano. Avvertono per email Cantori & gli altri che i Larsen PE sono ‘problematici’. Come si legge nelle stesse istruzioni per l’uso, «vanno bene solo per edifici bassi, al massimo di due piani». E, per inciso, la spiegazione che di questa strano limite danno in camera caritatis gli addetti è tale da farti rimpiangere la curiosità di chiederglielo: «Dai due piani in fiamme, le finestre possono sempre offrire una via di scampo». «Usate gli FR», che sono molto più resistenti al calore, si raccomandavano, infatti, nel 2009, quelli di Alucoil.

Costano un po’ di più, è vero, ma gli italiani, a tirare sul prezzo, nemmeno ci provano: insistono sui PE, e i pannellari andalusi, pur di non perdere l’affare, abbozzano. Del resto, secondo Lembo, data la carenza di misure antincendio, combinata alla potenza di tiraggio delle vele, nemmeno i Larson FR avrebbero potuto evitare che la palazzina bruciasse. Memorabile, su questo punto, la faccia tosta di certi tecnici della Cantori, capaci di argomentare, a loro discolpa, che la necessità di soddisfare il cliente prevale sulla consapevolezza che le sue richieste possano comportare un maggior rischio. Altrimenti detto: le vele le hanno volute gli acquirenti, e noi ci siamo limitati a eseguire. Riprendiamo il discorso domani. — (1. continua) © RIPRODUZIONE RISERVATA

Inviato speciale per il telegiornale scientifico e tecnologico Leonardo e per i programmi Ambiente Italia e Mediterraneo della Rai, ha firmato reportage in Italia e all’estero, e ha lavorato per La Stampa, L’Europeo, Panorama, spaziando tra tecnologia, ambiente, scienze naturali, medicina, archeologia e paleoantropologia. Appassionato di mare, ha realizzato numerosi servizi subacquei per la Rai e per altre testate.