“Quando si ha a che fare con i concetti di ‘nazione’ e ‘nazionalità’, il presente conta sempre più del passato e lo piega più che volentieri alle esigenze della politica. Di ascoltare e di leggere ogni dieci secondi la parola ‘italiano’, e sempre a sproposito, non se ne può più. Ormai tutto deve essere visto in questa chiave e ogni occasione, dalla pizza alle missioni in Antartide, punta solo a enfatizzare l’italianità: basta vedere i servizi mandati in onda in questi giorni da Rainews 24 e sembra che il Polo Sud lo abbiamo scoperto noi. Si tratta, a tutti gli effetti, di una cura ricostituente dal pessimo sapore di suprematismo all’amatriciana che la destra sta imponendo al Paese. Una vera e propria terapia di massa che, nell’ottica nostalgica e primitiva dei suoi pensatori di alto profilo, dovrebbe farci raggiungere, a tappe forzate, quella condizione psicologica e sentimentale di autentici patrioti
L’articolo di MAURIZIO MENICUCCI

NELLA FORMAZIONE DI un’identità nazionale, il mito costruito a posteriori (in antropologia, la mitopoiesi) conta molto più della realtà. In altre parole, quando si ha a che fare con i concetti di ‘nazione’ e ‘nazionalità’, il presente conta sempre più del passato e lo piega più che volentieri alle esigenze della politica. Su questa fondamentale ambiguità, di cui molto sì è scritto, raccomanderei di leggere “The Ancient Messenians, un caso di costruzione dell’etnicità e della memoria”, firmato da Nino Luraghi e pubblicato nel 1908 da Cambridge. Lo storico torinese, docente ad Harvard, vi racconta di come gli abitanti di Messene (quella del Peloponneso), liberatisi dal plurisecolare vassallaggio a Sparta, s’inventarono letteralmente un nuovo passato, adatto a sostenere le loro notevoli possibilità economiche. Così riscritto, il loro pedigree affondava fino alla guerra di Troia, solito evento fondativo della Storia e delle oligarchie elleniche, e dal momento che i Messeni avevano comunque molto da offrire, in cambio del riconoscimento, consentì loro di accomodarsi, con pari dignità, al tavolo delle maggiori città greche.
Ho voluto ricordare questa subalternità della memoria dei popoli alle loro velleità, perché, con tutto il rispetto per chi coltiva altre sensibilità all’ombra dell’Altare della Patria, io, di ascoltare e di leggere ogni dieci secondi, e sempre a sproposito, la parola ‘italiano’, non ne posso più. Ormai tutto deve essere visto in questa chiave e ogni occasione, dalla pizza alle missioni in Antartide, punta solo a enfatizzare l’italianità (non è un modo dire, basta andarsi a rivedere i servizi mandati in onda in questi giorni da Rainews 24: sembra che il Polo Sud lo abbiamo scoperto noi).
Un altro esempio, tra i troppi possibili, di questa incipiente riesumazione degli aspetti più tronfi e ridicoli del Ventennio, per spiegarmi meglio. L’altra sera: speciale Rai per approfondire il tema di Iter (International Thermonuclear Experimental Reactor), progetto importantissimo che impegna tutte le nazioni nella costruzione di un prototipo di reattore a fusione nucleare nella zona di Cadarache, in Provenza. Qualcuno l’ha definito prometeico, e non è esagerato. Dovesse mai funzionare, e purtroppo lo sapremo tra non meno di vent’anni, potrebbe cambiare le sorti oggi non troppo rosee dell’umanità, fornendo energia gratuita, pulita e illimitata, attraverso la stessa reazione che ‘tiene accesi’ il sole e le stelle e, di qui, la vita sulla Terra.

Di tutto ciò gli Italiani, a differenza dei Francesi che ci portano migliaia di bambini a visitarlo, sanno poco o nulla, anche se Iter vede la parte migliore della nostra ricerca impegnata a progettare e a realizzare i componenti più impegnativi e sofisticati dell’impianto. Il reportage dentro il cuore della centrale in costruzione era l’occasione buona per spiegare questo e molto altro delle enormi, ma al contempo entusiasmanti, difficoltà, teoriche e pratiche, del progetto. Invece la collega, dopo aver citato qua e là, tanto per insaporire, “deuterio”, “trizio”, “campi magnetici” e “maxibobine”, e nonostante l’accompagnasse Mario Merola, un esperto coi controfiocchi — che di Iter sa tutto e potrebbe farlo comprendere anche a un ornitorinco — a un certo punto ha chiuso bruscamente il capitolo scientifico, in realtà mai aperto, e ha posto all’interlocutore la domanda nazional popolare che in tutta evidenza stava a cuore al Nuovo Ordine Rai: ma lei è italiano, gli italiani sono molto importanti qui, quanti sono? Il che poteva anche essere interessante, ma non in quella sequenza e, appunto, senza lasciare altro spazio per chiarire che cosa si sta facendo lì, e perché l’Italia ci sta spendendo qualche miliardo.
Oltretutto, volendo trovare un argomento politico utile all’attuale maggioranza, si poteva raccontare che trent’anni fa Iter era stato offerto prima a Roma: Ortensio Zecchino, ministro della Ricerca e dell’Universita’ dal ‘99 al 2001, mi confermò che s’era parlato di realizzarlo in Sardegna, dove avrebbe portato con sé investimenti e lavoro, ma poi i nostri politici avevano avuto paura della parola nucleare e la Francia era stata lesta ad alzare la mano, sollevandoci dagli ambagi.

Tornando all’’italian first’ che gronda e affligge da ogni riga dell’informazione ufficiale: si tratta, a tutti gli effetti, di una cura ricostituente dal pessimo sapore di suprematismo all’amatriciana che la destra sta imponendo al Paese. Una vera e propria terapia di massa che, nell’ottica nostalgica e primitiva dei suoi pensatori d’alto profilo, dovrebbe farci raggiungere, a tappe forzate, quella condizione psicologica e sentimentale di autentici patrioti che invece, e per fortuna, gli italiani — quelli reali e non quelli della retorica mameliana del ‘siam pronti alla morte l’Italia chiamò’ — si sono quasi sempre fatti scivolare addosso. Certo, l’hanno fatto usando l’ironia un po’ cialtronesca che tanto ci caratterizza e tanto, infatti, infastidisce la destra; ma l’hanno fatto anche scegliendo di agire bene, (come tutti, non sempre..) in nome di valori umani e universali, piuttosto che per quelli identitari, anche se poi è stato facile, per la destra e anche per la sinistra, (anche da questa parte ‘s’ha da vota’, no?) falsificare gli eventi con una mano di posticcio patriottismo.
Ora: non si tratta solo di tener conto di quanto il percorso che ha portato all’Unità d’Italia sia stato accidentale, fortunoso, e contingente alle necessità geopolitiche delle potenze che al tempo lo favorirono. Né ci si può limitare a bollarlo come fuori tempo massimo, osservando, di nuovo, che l’uso della lingua italiana è rimasto per decenni limitato dal punto di vista della geografia, della cultura e del censo, dunque all’antitesi di una lingua nazionale. Si tratta, invece, di considerare che noi ‘italiani’, popolo di labile e scettica italianità, siamo nella condizione migliore per praticare una nuova ragion d’essere. Un’identità non solo più utile per il futuro, ma, se si guarda con mente lucida alla Storia e alle sue eredità, anche molto più reale e motivata di quell’idea di Patria & Tricolore & Colore che, quando rimbomba troppo spesso, come oggi, mescolata perfino a improbabili orgogli enogastronomici, non si irrobustisce affatto. Anzi, si svuota e finisce per evocare, più che i grandi destini e le egregie cose, il clamore stolido degli stadi di calcio, o i cori con cui esorcizzavamo a buon mercato la clausura e la paura ai tempi del colera, pardon, del Covid. Parlo, ovviamente, della necessità e della responsabilità — lasciamo stare orgogli e onori, per carità — di sentirci cittadini d’Europa. Ecco, l’ho detto. E adesso, impalatemi pure. © RIPRODUZIONE RISERVATA