Un attore impersona uno schiavo atticciato. Dettaglio di una scena di farsa fliacica da un cratere a calice siceliota a figure rosse (350–340 a.C.) Museo del Louvre, Parigi

Il travestimento burlesco della tragedia della Città dei Due Mari si svolge nell’anfiteatro romano, lo stesso che molti secoli dopo verrà ricoperto da una sorta di malta (che chiamano cemento) per far posto a poche decine di bighe (che chiamano automobili), mentre il sito prenderà un nome strano, “parcheggio”, che non si riconosce in alcun etimo del dialetto dorico di Rintone e neppure in quello ionico di Omero. Attorno al Wanax, il più potente fra i cittadini, si affollano uomini a donne a far da corona al suo talamo, in attesa di un cenno per salire ed accomodarsi accanto a lui. Al cenno del primo fra i notabili comincia la sarabanda e uno dei petali della corolla che attornia il lettone, si alza e magnifica le sue doti, per ottenere il permesso di “montare sul letto”, il quale riserva delizie a non finire e incarichi con compensi di migliaia di dracme al mese, se non proprio di talenti. Fra i più raccomandati, bersaglio dell’ilarità amara con cui il celebre drammaturgo scortica i maggiorenti, seduti in prima fila nella “proedria” del teatro, c’erano − manco a dirlo − anche gli estensori degli “acta”. È la stampa, bellezza! in ogni tempo e luogo…


◆ Il racconto di ARTURO GUASTELLA, inviato nella Magna Grecia

È tutto pronto. I posti sono già tutti occupati. E lo “Stasimo”, il coro che accompagna con canti e danze lo svolgersi di questo genere teatrale, è al suo posto e ha provato a lungo questa “triade strofica”, il cosiddetto terzo periodo od epodo, che, dopo la strofe e l’antistrofe doveva essere eseguito da due semi cori contemporaneamente. C’è molta curiosità in città, per questa pièce teatrale assolutamente inedita, scritta e curata da un tarantino illustre, quel Rintone inventore dell’Ilarotragedia, conosciuta perfino a Roma. Anche se i Quiriti preferivano chiamarla “Fabula Rhinthonica”. Il teatro è l’anfiteatro romano, lo stesso che molti secoli dopo verrà ricoperto da una sorta di malta (che chiamano cemento) per far posto a poche decine di bighe (che chiamano automobili), mentre il sito prenderà un nome strano, “parcheggio”, che non si riconosce in alcun etimo del dialetto dorico di Rintone e, neppure in quello ionico di Omero. 

Il titolo di questa opera di Rintone, “Coloro che montano sul letto”, fa prevedere, oltre ad una satira da scorticare i maggiorenti della città, anche quell’ilarità amara che, come ha potuto constatare il vostro cronista, ha richiamato a Taranto anche un personaggio illustre, come il giornalista e scrittore Giorgio Manganelli, che, molti secoli dopo, scriverà anch’egli la sua Hilarotragoedia. E, mentre aspettiamo nella “proedria” del teatro, i gradini della prima fila, cioè, riservati ai cittadini meritevoli, o ai più raccomandati, i proedri, per l’appunto e agli estensori degli acta, la stampa, i giornalisti (bellezza!), Manganelli mi intontisce con termini come “balistica interna ed esterna, angosciastico, con le varie declinazioni dell’angoscia, deidescendere” e, così via, facendo ipotesi sul come “il poeta del niente”, contenga il tutto e via di questo passo. La curiosità, però, è tutta per i 39 frammenti dell’opera di Rintone che la Suda (una sorta di Wikipedia bizantina), dice siano pervenuti ai posteri e di come, invece, il figlio del vasaio tarantino del III secolo avanti Cristo, l’aveva scritta e ideata a suo tempo. 

Silenzio. I due cori si sistemano al centro dell’Orchestra, lo spazio semicircolare al centro del teatro, mentre sulla Skenè, il quadrangolo di fronte all’orchestra, dove recitavano gli attori, e sul Proskènion, la pedana rialzata, dove si avrebbero alternato gli attori stessi (che erano già entrati dai Paradoi, i due accessi riservati al coro e agli attori), era stato sistemato un grandissimo letto. Lo Stasimo, il coro intona dei canti lamentosi e un pizzico osceni, paragonando quelle ciminiere che si stagliano laggiù nel mare, a due simboli fallici, incombenti sulla polis, e il cui “escreto” è in grado di causare morbi difficili o impossibili da curare. Il Coro, chiede a gran voce che il Wanax (il primo dei notabili) si munisca di asce e tagli dalle fondamenta quei simboli osceni e perniciosi.

Sul lettone, nel frattempo, si era sdraiato, poggiandosi su di un gomito, il più potente fra i cittadini, mentre attorno al letto, a fare da corona al talamo, si affollavano uomini a donne, in attesa di un cenno per salire ed accomodarsi accanto a lui. No, non si trattava di cittadini comuni, ma di esponenti del censo che aveva diritto al voto e fra i quali si sceglievano, allora per sorteggio nell’Agorà, coloro che poi, sia nell’Ecclesiasterion che nella Boulè, avrebbero codificato quelle leggi che per l’intro anno avrebbero regolato la vita sociale ed economica di Taranto. 

Il più celebre dei Wanax dell’Antica Grecia: Agamennone, rappresentato in una maschera d’oro (dalle tombe reali di Micene 1600-1500 a.C. circa), Museo archeologico nazionale di Atene

Ad un cenno del Wanax (e solo con il suo permesso), uno dei petali della corolla che attorniava il lettone, si alzava e magnificava le sue doti, per ottenere il permesso di “montare sul letto”, il quale riservava delizie a non finire e incarichi con compensi di migliaia di dracme al mese, se non proprio di talenti. Così a quello che aveva avuto accesso al letto, era stato affidato l’incarico di dirigere i lavori di pulizia in tutta la polis. A quell’altro, l’ascesa al talamo aveva permesso di costruire ville e case per i cittadini. All’altro ancora, la direzione delle mangiatoie pubbliche, scegliendo e comprando biada per i cavalli, finimenti e, perfino, le bighe da far venire dalla madrepatria o costruire dagli artigiani del quartiere del kerameikòs. Le donne, le Korai, poi, con i loro pepli serici e gli sguardi ammalianti, non avevano, poi, neanche tanto bisogno di magnificare le loro doti per ottenere dal grand’uomo una direzione qui, un incarico ben remunerato là, o la qualifica di capo degli scribi del palazzo. Salivano sul lettone, sorridevano e non si toglievano mai la maschera fliacica che dovevano indossare. 

E, qui sta il bello. Gli spettatori dovevano indovinare chi si celasse dietro questa o quell’altra maschera. E si davano di gomito ridendo, quando indovinavano che quella maschera celava chi fino a ieri era stato il più acerrimo detrattore del Wanax. Che aveva cercato di convincere i cittadini a vergare il suo nome sull’ostraka, su quel coccio, cioè, dove si scriveva il nome del potente che si voleva esiliare. A dargli, insomma, l’ostracismo, mentre ora ambiva salire sul lettone. Come in un teatro che si rispetti, c’erano anche coloro che fischiavano impietosamente il primo dei notabili. Anche se, poco tempo prima, anche loro indossavano la maschera ed erano saliti sul lettone, dal quale poi erano stati costretti a scendere. Alla fine, applausi scroscianti a Rintone, con l’amarezza, però, che nel teatro c’era stata l’ilarità, mentre fuori, al lavoro per le strade, li aspettava una tragedia della quale non si riusciva ad intravederne la fine. E, per Manganelli, come era stata questa opera di Rintone? “Ridanciana, drammatica, gaglioffa, rissosa plebea e aristocratica, un divertimento e un capolavoro di calcolata dottrina”. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Giornalista dal 1971. Ha alternato la sua carriera di biochimico con quella della scrittura. Ha diretto per 14 anni “Videolevante”, una televisione pugliese. Ha tenuto corrispondenze dall’Italia e dall’estero per “Il Messaggero”, “Corriere della Sera”, “Quotidiano”, “La Gazzetta del Mezzogiorno” per la quale è editorialista. Con la casa editrice Scorpione, ha pubblicato “Fatti Così” e, con i Libri di Icaro, “Taranto - tra pistole e ciminiere, storia di una saga criminale”, scritto a due mani con il Procuratore Generale della Corte d’Assise di Taranto, Nicolangelo Ghizzardi. Per i “Quaderni” del Circolo Rosselli, ha pubblicato, con Vittorio Emiliani, Piergiovanni Guzzo e Roberto Conforti, “Dossier Archeologia” e, per il Touring club italiano, i “Musei del Sud”.