Orrendi assalti all’arma bianca dei miliziani palestinesi si sono consumati contro cittadini ebrei inermi, uccisi nelle loro case solo perché ebrei appena oltre le recinzioni che dividono israeliani e palestinesi da decenni. L’offensiva di Hamas accantonerà il dibattito pubblico che percorre la società e le istituzioni israeliane da quaranta settimane contro le involuzioni della destra ebraica integralista. La prospettiva di uno Stato democratico multietnico e multiculturale si allontana, si gonfiano le vele dell’estremismo islamico sulla pelle, ancora una volta, del popolo palestinese


◆ L’editoriale di IGOR STAGLIANÒ 

Un’altra alba di orrore s’è aperta davanti ai nostri occhi ieri, con le immagini in arrivo da Israele e dalla Striscia di Gaza. Un orrore per la mente e per il cuore. La cancellazione dal dibattito pubblico dei diritti palestinesi ad avere una terra e uno stato in cui vivere in pace con il vicino popolo israeliano ha gonfiato il bubbone di odio esploso con la pioggia di missili di Hamas su una delle città più popolose nel sud di Israele. Orrendi assalti all’arma bianca dei miliziani palestinesi si sono consumati contro cittadini ebrei inermi, uccisi nelle loro case solo perché ebrei appena oltre le recinzioni che dividono israeliani e palestinesi da decenni. 

Il bubbone di frustrazioni e risentimenti è esploso nei 362 chilometri quadrati più densamente popolati dell’intero Mediterraneo. E non poteva essere diversamente. Una striscia di terra nella quale è ammassata una parte del popolo palestinese disperso in tanti rivoli, alla mercé, quasi sempre, di altri Paesi arabi. Un popolo usato ciclicamente — nel suo bisogno primario di avere una terra in cui riconoscersi e poter mettere proprie radici — dagli acerrimi nemici di Israele per regolare i propri conti con lo Stato ebraico nato settantacinque anni fa anche come risarcimento istituzionale e morale per l’immane tragedia vissuta con la Shoah durante il nazifascismo. 

Tel Aviv, 11 luglio 2023, manifestazione contro la riforma della giustizia del primo ministro Netanyahu (foto di Abir Sultan-Epa); sotto il titolo, una strada di Askelon dopo la pioggia dei missili di Hamas e le conseguenze della rappresaglia aerea israeliana a Gaza

Israele è attraversato, oggi, da preoccupazioni e divisioni politiche che si aggravano, dopo quaranta settimane di mobilitazioni popolari contro le riforme antidemocratiche portate avanti dalla destra confessionale e integralista raccolta sotto l’ombrello politico di Benjamin Netanyahu, inseguito da processi per corruzione e abuso di potere insieme alla moglie. Un dibattito e una mobilitazione pubblica che l’offensiva dei miliziani di Hamas farà momentaneamente accantonare. Ma il punto è proprio questo, ed è un punto cruciale. Se spingi lo Stato a definirsi e strutturarsi come esclusivamente ebraico — com’è avvenuto con la “legge della nazione” del 2018 — e non più ebraico e democratico com’è avvenuto nei suoi primi settant’anni di vita in coerenza con la “Dichiarazione di indipendenza” del 1948, se fai questo chiudi la porta al riconoscimento dei pari diritti all’autodeterminazione per cittadini israeliani non ebrei, primi fra tutti gli arabi-palestinesi che pure hanno eletto sin qui propri rappresentanti nelle istituzioni israeliane. Se lo fai cancelli dall’orizzonte politico (ed anche storico) la prospettiva di uno Stato democratico inclusivo multietnico e multiculturale. Se lo fai radi al suolo la possibilità stessa di una convivenza pacifica in Cisgiordania con una qualche forma statuale condivisa, per mettere fine a politiche discriminatorie, denunciate da organizzazioni umanitarie non governative. Se emargini l’Autorità nazionale Palestinese, fino ad espellerla da Gaza — come hanno fatto governi israeliani poco lungimiranti — gonfi solo gli integralisti di Hamas. Aprendogli la strada anche nei territori occupati della West Bank con qualche migliaio di coloni sovranisti in più. Chi è amico del popolo ebraico e dello Stato democratico di Israele questi argomenti deve avere l’onestà intellettuale di esprimerli con chiarezza, assieme ad una infinita tristezza per tutte le vittime innocenti di un conflitto che non vede la fine.

All’alba del 7 ottobre un altro tassello della “Terza guerra mondiale a pezzi”, di cui ha parlato Jorge Mario Bergoglio, è stato disposto così sulla scacchiera geopolitica in un quadrante del mondo rischiosissimo. Ed è già partito il gioco del “chi sta con chi”. Chi ha armato i miliziani, da dove passano le armi, da dove arriverà il prossimo colpo, se dietro l’attacco c’è l’Islam sciita nell’eterna competizione con quello sunnita. Il merito dei problemi incancreniti da decenni di ingiustizie e soprusi sarà presto accantonato. Eppure sono questi problemi che fermentano instabilità e violenza in quell’area del mondo — ad un altro tiro di schioppo dai confini europei. Come se non ci bastasse già il conflitto in Ucraina. Di leader politici all’altezza della sfida spalancata davanti a noi non se ne vedono. Sì, ce n’è uno, globale, Papa Francesco. Ma, biblicamente, declama purtroppo nel deserto, come Giovanni l’Evangelista. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Direttore - Da inviato speciale della Rai, ha lavorato per la redazione Speciali del Tg1 (Tv7 e Speciale Tg1) dal 2014 al 2020, per la trasmissione “Ambiente Italia” e il telegiornale scientifico "Leonardo" dal 1993 al 2016. Ha realizzato più di mille inchieste e reportage per tutte le testate giornalistiche del servizio pubblico radiotelevisivo, e ha firmato nove documentari trasmessi su Rai 1, l'ultimo "La spirale del clima" sulla crisi climatica e la pandemia.