
Nonostante la splendida voce da basso di Ildar Abdrazakov, lo “usteron proteron” del regista danese trasforma uno zar del 1600 in uno che ricorda più Giorgio Germont, il padre di Alfredo nella “Traviata”, piuttosto che la fosca figura che voleva rappresentare Puskin, cui si rifà il testo rielaborato dallo stesso Mussorgskij. Al di là della realtà storica — Boris, poveraccio, fu zar di tutte le Russie dal 1598 al 1605 e fece anche qualche mossa giusta —, Puskin voleva che quella sua opera richiamasse una tragedia shakespeariana del potere. In mezzo a panciotti e lunghe finte seconde maniche scelti da Holten per “vestire” l’opera, si perde la concentrazione per cogliere in profondo l’anima del popolo russo, che Mussorgskij esprime nella sua musica come, in contemporanea, facevano Tolstoj o Dostoevskij in letteratura. Il capolavoro di Mussorgskij è però un’opera così grande da superare ogni rilievo. Meritati, i tredici minuti di applausi finali
La recensione di HERR K.
AVEVA RAGIONE IL Presidente Mattarella — e la premier che ha usato le stesse parole – nel respingere le critiche sull’opportunità di aprire la stagione della Scala con un’opera russa, il Boris Godunov: i popoli e le loro culture sono cose diverse dai governi e dalle loro scelte. Certo, comunque sia nata, quella scelta è stata politica, come ha dimostrato la stessa pretesa di recedere da quella “prima” che Zelenski ha rivolto agli esponenti politici italiani, e va nella direzione che molti auspicano: preparare, in tanti modi, un terreno possibile per almeno cominciare a ipotizzare un “cessate il fuoco”. Sicuramente sarà stata apprezzata da quel “pasticcione” di papa Bergoglio, come l’“elefantino” liquida dal “Foglio” la politica estera del Vaticano, dimostrando che l’aver dimorato per una decade nella “chiesa rossa” non lo mette certo al livello dei due millenni di Chiesa cattolica.

Meno condivisibile, almeno per me, è invece quel ripetuto richiamo alla comune cultura europea, che, seppure a fin di bene, sembra però cancellare quella peculiarità di “confine” tra Europa e Asia, con cui la “grande madre Russia” ci è stata rappresentata, quando capitava, fin dalle scuole superiori. Non a torto. E di una sostanziale alterità rispetto all’operistica italiana, tedesca, europea insomma, il “Boris Godunov” appare proprio un buon esempio. Il regista, Kaspar Holten, si è sforzato, al contrario, di “vestire” l’opera con gli abiti borghesi dei protagonisti, come nelle coeve opere di Verdi, dotando, en passant, i boiari di giacche con orribili maniche doppie, il paio più lungo a mimare le cappe di eisensteniana memoria. La questione è che la grandezza di Modest Mussorgski, oltre che nella genialità musicale, sta proprio nella sua capacità di riferirsi, anche musicalmente, alle tradizioni popolari in un contesto in cui il dramma dei protagonisti ha come contrappunto la presenza corale delle masse. Spesso contadini poveri e affamati, ancora, ai suoi tempi, “anime” possedute dai grandi latifondisti, ma depositari di quelle tradizioni, legate alla terra e ai suoi ritmi, che caratterizza la narrazione russa del mondo perfino nelle fiabe. Come rilevò nella sua vasta analisi Vladimir J. Propp: l’eroe della favola cade a terra sconfitto, no, proprio dal contatto con la terra trae nuovo vigore per arrivare all’immancabile vittoria. Questo rapporto con la terra, la coralità delle masse fu ben rappresentata in un’edizione di decadi fa, a Roma, al teatro Argentina, che vidi in una delle non frequenti rappresentazioni del Boris Godunov. Lo “usteron proteron” di Holten trasforma uno zar del 1600 in uno che, nonostante la splendida voce da basso di Ildar Abdrazakov, ricorda più Giorgio Germont, il padre di Alfredo nella “Traviata”, che non la fosca figura che Puskin, cui si rifà il testo rielaborato dallo stesso Mussorgskij, voleva rappresentare. Al di là della realtà storica — Boris, poveraccio, fu zar di tutte le Russie dal 1598 al 1605 e fece anche qualche mossa giusta — perché Puskin voleva che quella sua opera richiamasse una tragedia shakespeariana.
È vero, si fa in teatro di far calzare scarpe da ginnastica ad Amleto o moderne giacche di cuoio alla corte di Macbeth, ma in questo caso la regia di Holten quasi distrae, sicuramente me, dall’incredibile forza espressiva del “Boris”, dal contesto musicale di un’opera che ha influenzato non poco il Novecento. In mezzo a panciotti e lunghe finte seconde maniche si perde la concentrazione per cogliere in profondo l’anima del popolo russo, che Mussorgskij esprime nella sua musica come, in contemporanea, facevano Tolstoj o Dostoevskij in letteratura. E sembra quasi un ossimoro rispetto alla ricerca di Chailly, che ha scelto proprio la prima stesura del “Boris”, quella bocciata dall’apposito comitato imperiale di San Pietroburgo perché inadeguata dal punto di vista melodico. Quei toni aspri, quella varietà ritmica, quell’alterità rispetto agli elementi che caratterizzano la musica occidentale, non si addicono davvero a Giorgio Germont.
Il capolavoro di Mussorgskij è però un’opera così grande da superare ogni rilievo, figuriamoci i mal di pancia di chi era rimasto affascinato da una versione teatrale diversa. Meritati, i tredici minuti di applausi finali. © RIPRODUZIONE RISERVATA