Il viso statuario della moglie di Gelone, tiranno di Siracusa, era effigiato nel recto di una moneta d’oro di dieci grammi coniata da una corona di cento talenti (duemila e seicento chili) regalata dai siracusani alla sposa del loro tiranno. Una bellezza straordinaria che richiamava un altro viso stupendo, quello di Nefertiti, la sposa ittita di Amenofi IV, il faraone eretico Akhenaton. A cui, la sposa del Tiranno univa una bontà di carattere altrettanto rara. Fu lei, difatti, a pretendere che nel trattato di resa dei Cartaginesi sconfitti dalla flotta di suo marito venisse inserita la clausola che vietasse per sempre, ai Cartaginesi tutti, il sacrificio umano dei loro primogeniti al dio Baal. Per verificare se fosse andata proprio così, il nostro inviato nella Magna Grecia affronta i marosi tra Scilla e Cariddi e, durante una pièce di Epicarmo, se la ritrova nel teatro piccolo di Siracusa davanti al suo piccolo binocolo, ignoto sia al calvo Eschilo che all’anziano Simonide, ed anche a Bacchilide, Strabone e Pindaro
◆ Il racconto di ARTURO GUASTELLA, nostro inviato nella Magna Grecia
► Gli archeologi, ma soprattutto i numismatici, le conoscono molto bene, anche se, ci scommetto, pochi di loro hanno avuto il privilegio di vederle da vicino. E, invece, il vostro intraprendente cronista ne ha potuto ammirare una. E, perfino, toccarla. E non in qualche museo, ma in una sorta di galleria d’arte di Zurigo, dove ero approdato, sulle tracce di reperti archeologici fatte sparire con destrezza dal Sud del nostro paese. Dalla Magna Grecia, insomma. Anche se, stavolta, si trattava di preziosissime decadracme d’oro, provenienti da Siracusa. Il “pass”, per accedere alla galleria, lo avevo avuto da un esperto “numismatico” ionico, che ai proventi della cattedra di una scuola elementare, sommava quelli ben più sostanziosi del traffico clandestino di monete antiche e di preziosi reperti archeologici provenienti da tutto il Sud. E dal quale, nonostante tutto questo, solevo attingere notizie e non di rado mi sedevo a prendere un caffè nella sua splendida cucina.
Hanno un nome, queste monete, “Damaratee”, nel cui recto vi è effigiato il volto bellissimo di una donna. E, poiché anni addietro, ero rimasto incantato per un buon quarto d’ora, ad ammirare, al Museo Nazionale del Cairo, un altro viso stupendo, quello di Nefertiti, la sposa ittita di Amenofi IV, il faraone eretico Akhenaton, vedere che lo stesso effetto me lo aveva fatto anche questo volto, divenne immediata la decisione di sfidare la sorte e il caldo. Sfidare, soprattutto la furia dei marosi tra Scilla e Cariddi, e avventurarmi nella città fondata dai Corinzi, Siracusa, per l’appunto, che aveva la potenza navale più potente dell’intero Ionio, tanto da avere stracciato a più riprese la flotta cartaginese. Mi avevano, inoltre, raccontato che in quel periodo, il primo quarto del V secolo a.C., nell’isola triangolare, si trovavano il meglio della poetica greca, il solito Pindaro, l’anziano Simonide con il nipote Bacchilide, della drammaturgia, il sommo Eschilo, i filosofi Senone ed Epicarmo, tutti in giro fra Siracusa, Gela e Akragas.
Ritenevo, a torto, che Damarete fosse una modella, al pari della milesia Aspasia o della tespia Frine, (o Mnesarete), che pare avesse posato per il pittore Apelle, per la sua Venere Anadiomene e per Prassitele, per l’Afrodite cnidia. E, invece, Damareta era nientemeno che una quasi regina, essendo figlia di Terone, Tiranno di Akragas, e moglie di Gelone, Tiranno di Siracusa e, alla sua morte, del fratello di lui, Polizelo, anch’egli poi Tiranno della apoikia corinzia. Chiedendo in giro, poiché era quasi impossibile essere ammessi alla corte di Gelone senza una fortissima raccomandazione e, meno che mai, alla presenza di Damareta, Bacchilide (si proprio lui) mi indicò due distintissimi “kouroi”, due greci d’occidente, il messinese Alcimo e il siracusano Ninfodoro, che mi confermarono come la moglie di Gelone, alla straordinaria bellezza assommava anche una bontà di carattere altrettanto rara in quel periodo di lotte, di stragi e di massacri.
“Quando, infatti, – cominciò a raccontare il retore messinese – Gelone sconfisse in una battaglia campale (Imera?) i Cartaginesi, alla firma del trattato della loro resa Damarete pretese che vi fosse inserita la clausola che vietasse per sempre, ai Cartaginesi tutti, il sacrificio umano dei loro primogeniti al dio Baal. Clausola che da allora in poi, fu rispettata anche quando gli eredi dei Fenici, combattevano altre guerre in Africa”. “Per la sua bellezza e per la grande nobiltà d’animo – interviene Ninfodoro – tutti noi siracusani le abbiamo regalato una corona d’oro del peso di cento talenti, che Damarete ha fatto fondere per coniare quelle monete che tu ora ammiri così tanto e che ti hanno portato qui da noi”. A questo punto, mi sono isolato per fare due conti, restando sbigottito per il risultato. Se, infatti, in Grecia (Omero nell’Iliade), un talento attico pesava circa 26 chili, i siracusani avevano omaggiato la moglie di Gelone con una corona d’oro di ben duemila e seicento chili. E, poiché, un “damareton” pesava dieci grammi, fatevi voi il conto di quante monete d’oro fossero state coniate.
E del fatto che quello effigiato non fosse il volto della figlia di Terone, ma della ninfa Aretusa? “Falso – interviene Strabone (che trovi un po’ dovunque) – o anche tu vuoi credere al mito della ninfa figlia di Nereo, che, non potendone più del suo spasimante Alfeo, scappò qui, ad Ortigia chiedendo alla zia Artemide di trasformarla in sorgente, e di come Alfeo, disperato, si rivolse a Zeus che gli concesse di diventare un fiume e di mescolare per sempre le sue acque a quelle della sorgente Aretusa?”. “Chiedi a questo sputasentenze, originario di una città, Amasea, che è una virgola insignificante fra le poleis greche, se non sono proprio sue le affermazioni che avvalorano questo mito”, interviene a questo punto l’onusto Simonide. E, in effetti è stato proprio il grande geografo a dire, “Ogni volta che a Olimpia si celebrava un sacrificio, le acque della fonte Aretusa si macchiavano di rosso; e se ad Olimpia si gettava una coppa nel fiume Alfeo, questa emergeva nel mare di Siracusa”. Come dire, insomma, che per volere di Zeus, fu concesso ad Alfeo, tramutato in fiume, di scorrere, sotto lo Ionio, dal Peloponneso alla Sicilia, per sfociare ad Ortigia.
“E, comunque – mi fa sapere Bacchilide – stasera, nel teatro greco della città, non quello dove ora si rappresentano le tragedie di quell’Eschilo lì, di Frinico, di Sofocle o di Euripide, ma uno più piccolo, è prevista una pièce, una commedia di Epicarmo e dove sicuramente ci saranno Gelone e consorte”. “Certo – sottolinea maligno, Pindaro – non ti aspettare un Menandro o un Aristofane”. Certo al vostro cronista non tocca la “proedria”, la prima fila, cioè, ma la piccionaia. Anche se non sanno, né il calvo Eschilo, né l’anziano Simonide, e neanche Bacchilide e Strabone e Pindaro, del mio piccolo binocolo che mi consente di vedere tutto e tutti. E, davvero, Damarete è bellissima e non è male neanche il pezzo teatrale di Epicarmo. Soprattutto quella scenetta, quando citando la dottrina euclidea del continuo divenire, “se per voi è ora un fatto acclarato che l’acqua di un fiume non può essere la stessa di un istante fa, perché non credete che io, l’uomo di ieri, che ha contratto con voi un grosso debito, non sono più lo stesso uomo di prima, ed è perciò, irragionevole che voi continuiate a sollecitarmi di pagarvi quel debito…”. © RIPRODUZIONE RISERVATA