Quello che vi proponiamo è un viaggio particolare. Un viaggio nel mondo del castoro, e sulle tracce di quello “neoitalico”, raccontato da Maurizio Menicucci con la passione del cronista e dell’amico della natura. Sarà in più puntate, perché è un racconto che non si ferma alla riva del fiume, ma si muove con il passo di chi vuole scoprire – con noi – il ritorno di questo mammifero che abitava l’Italia fino a tre secoli fa. A fare da ciceroni in questo primo capitolo, gli animatori del progetto ‘Rivers with Beavers’, che segue il misterioso ritorno della specie e il suo non meno misterioso dilagare tra Toscana, Umbria e Lazio
Il reportage di MAURIZIO MENICUCCI

A CHE SERVE il castoro? Ammesso che la domanda abbia senso, perché potrebbe porsela anche lui nei nostri confronti, che cosa fa lo sappiamo. Legno su legno, fango su fango, crea barriere, lunghe anche centinaia di metri, che trattengono l’acqua, trasformano le sponde e fanno nascere, o rinascere, ambienti umidi complessi e ricchi di vita; con tutte le conseguenze del caso, e non sono poche, sulle storie umane, che non sempre vanno d’accordo con la storia naturale. In Ucraina, ad esempio, come recita un comunicato ufficiale, un po’ beffardo, di Kiev, i castori hanno mandato a monte i piani di Putin trasformando il confine bielorusso in un pantano impraticabile per i suoi tank. Certo, laggiù, nel bacino del Dnipro, di castori ce ne sono migliaia. Quanti sono qui, nel bacino del Tevere – questa la novità – stiamo cercando di comprenderlo, e di prevedere che piega prenderà la vicenda. Al momento, si può dire che sono abbastanza per impantanare gli esperti in un’accesa discussione sul fatto di accoglierli come fauna italiana, quali li considera la biologia, o rifiutarli, ex lege, come immigrati molto clandestini. E qui, basta la parola per evocare questioni politiche cui, a dire il vero, i castori sono estranei, se non fosse che, ad aprir loro le sacre frontiere, si rischia di passare per una nave Ong e messi all’indice con tutto il carico, che in questo caso umano non è, d’accordo, ma per il quale ogni briciola d’umanità sembra bandita.
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Intanto nel pantano, quello vero, ci sono due persone, che di prima mattina avanzano a fatica tra i rovi, e a ogni passo affondano nel fango gelido dell’ultima piena del Merse, tra Siena e Grosseto. Davanti a me, Emiliano Mori, giovane naturalista e ricercatore del Cnr, che da due anni, insieme ai colleghi Giuseppe Mazza, Chiara Pucci, Andrea Viviano e Davide Senserini, animatori del progetto ‘Rivers with Beavers’, segue il misterioso ritorno della specie e il suo non meno misterioso dilagare tra Toscana, Umbria, Marche e Lazio. Reduce dal convegno, organizzato dal gruppo a Sesto Fiorentino per fare il punto su questo strano fenomeno, lo immaginavo, il castoro neoitalico, affabile come quelli che avevo osservato, anni fa, lungo un’autostrada francese, in un’area di sosta, segnalati con tanto di cartello turistico: “Castors”. Ma questi devono aver capito che qui non tira l’aria di Parigi, dove Simone de Beauvoir chiamava affettuosamente Jean Paul Sartre “il mio Castoro”, e se ne stanno intanati, anche perché, al contrario della vista, hanno udito e olfatto finissimi, e poi il sole, ormai, è già alto.

Non siamo ancora sul punto giusto. Si va avanti, e all’ennesimo strappo nei pantaloni, mi dico che potevo anche chiedermelo, a che servono questi voluminosi roditori, 400 km più a nord, e più comodamente, a casa mia, in Piemonte. Perché è lì che alcuni esemplari, francesi, appunto, sarebbero in costante risalita e prossimi al crinale tra la Maurienne e la Valsusa. Ed è sempre lì che erano scomparsi gli ultimi della Penisola, forse non più di tre secoli fa, braccati non tanto per la pelliccia, e per la coda, grassa e prelibata, ma per qualcosa di ancora più prezioso: il castoreo, una sostanza oleosa prodotta dalle ghiandole anali, dolce e forte al naso e ricercatissima per medicamenti e profumi maschili. Emanato anche dalle feci, l’aroma del castoreo rivela la presenza del proprietario, non meno dei tronchi a mozzicone di matita, come quelli che Emiliano adesso mi sta indicando. Ci siamo. Anzi: ci sono. Proprio lì. La riva opposta dell’ansa si presta bene all’ingresso sommerso di una tana, e se per ora nessuna diga, nemmeno incipiente, sotto la superficie, sembra interferire con la corrente, l’attività di taglio, tutt’intorno, è frenetica. Del resto, è la continua ricrescita dei denti che li obbliga a rodere.
Quanti saranno? «Da tre a quattro. Due adulti, che sono qui da un anno, e uno o due cuccioli». Annoto la risposta di Emiliano. Ha detto: «Sono qui», non «sono arrivati». Forse voleva darmi un indizio, senza entrare direttamente in una querelle che sta diventando molto spinosa. In ogni caso, si sono riprodotti, segno che a loro questo tratto selvaggio e remoto del fiume va a genio. E anche se proprio soli non sono, possono contare sul fatto che in fondo né l’aroma della cacca, né i mozziconi arborei sono, in fondo, tanto evidenti, se non te li aspetti. Dalla macchia, canna in mano e passo cauto, avanza un anziano pescatore. Buondì, che fa? «Vo’ ’n cerca degl’ultimi barbi etruschi, ché ormai, per via de’ ripopolamenti, son tutti del tipo europeo». E i castori, li ha visti? «Ma quali? Conosco ogni metro, nutrie costì n’ho vedute, sì, ma de’ castori che dice lei n’un m’ero mai accorto». E non teme che disturbino i pesci? «Via, se parliamo di lontra, che se li pappa tutti, allora m’adiro, ma mi pare che ‘l castoro è vegetariano e allora si sta n’pace tutt’e due. E tanti saluti». Tanti, e in bocca al barbo. Meglio non dirglielo che le lontre, presenti nel Merse e nel vicino Farma fino a una quarantina d’anni fa, e lo scriveva Airone, che per noi giovani appassionati di natura era la Bibbia, stanno riconquistando gli antichi areali, e il castoro potrebbe favorirle. Così è successo sulle Alpi Orientali, grazie al Ponta: il primo castoro in assoluto a ritornare da solo in Italia. Oltretutto, in un luogo molto più accessibile di questo… (1. continua) © RIPRODUZIONE RISERVATA