La chiamano la “secessione dei ricchi”, e purtroppo è così. L’autonomia differenziata, il disegno di legge che il ministro degli Affari regionali Roberto Calderoli ha già presentato al Consiglio dei ministri (approvato all’unanimità) rischia di essere il detonatore che fa esplodere definitivamente le differenze tra Nord e Sud. Penalizzando ulteriormente il Mezzogiorno, che avrebbe bisogno di politiche di rilancio, per recuperare il divario che lo separa dal Settentrione. Il rischio è di colpire in modo drammatico il mondo dell’istruzione, che in tutti i Paesi moderni è strategico per il progresso. La scuola italiana verrebbe spezzettata con normative, contratti e prestazioni diverse. Lasciando il Sud ai suoi problemi, anzi esasperandoli. Ma il mondo della scuola è pronto a mobilitarsi (scioperi, manifestazioni di piazza. raccolta di firme) contro il Ddl del leghista Calderoli


L’inchiesta di ANNA MARIA SERSALE

LA “SECESSIONE DEI RICCHI”. È così che è stato battezzato il disegno di legge del ministro leghista Roberto Calderoli sull’autonomia differenziata delle regioni, da sempre bandiera del Carroccio. Dure le accuse. «Quel progetto è contro l’uguaglianza dei diritti, indebolirà il Parlamento e non farà altro che aumentare lo squilibrio tra Nord e Sud del Paese». Sindacati e partiti di opposizione (Pd, 5 Stelle, Terzo Polo, Sinistra italiana e Verdi) vanno all’attacco. Se la Repubblica è unica e indivisibile come si può accettare un mosaico di possibili “mini Repubbliche”, ciascuna libera di fare e disfare anche su temi centrali – quali salute, lavoro, istruzione – temi che condizionano in modo diretto la vita dei cittadini e il futuro del Paese? Un interrogativo che spinge sindacati e forze di opposizione a sollevare problemi di incostituzionalità e a chiedere di bloccare l’iter del Ddl. Il mondo della scuola è il primo a mobilitarsi. Sono in programma scioperi e manifestazioni di piazza, in difesa del diritto all’istruzione uguale per tutti.

È già partita una raccolta di firme promossa dalla Flc-Cgil, ovvero la Federazione dei lavoratori della cultura, che insieme agli altri sindacati della scuola ribadiscono il proprio «no» a qualsiasi ipotesi di regionalizzazione dell’istruzione, perché salterebbe l’impianto unitario e nazionale della scuola, introducendo organici, concorsi, contratti di lavoro e stipendi con grandi differenze su base territoriale. «Regionalizzare l’amministrazione, gli organici e lo stipendio del personale della scuola significa attaccare il ruolo unificante dei contratti nazionali di lavoro – sostiene Francesco Sinopoli, segretario nazionale Flc-Cgil -. Ma soprattutto significa frammentare il diritto all’istruzione che invece deve essere garantito a tutte e tutti a prescindere dal luogo in cui si è nati. L’autonomia, invece, produrrà marcate differenze per le diverse possibilità di spesa delle Regioni». Chi avrà più soldi sceglierà i docenti migliori e darà i salari più alti. Con differenze contrattuali, di salario,  mobilità e reclutamento. E,  cosa ancora più grave, con differenze nell’offerta formativa per gli studenti.

La scuola italiana, dunque, verrebbe spezzettata, con normative, contratti e prestazioni diverse. Gli istituti si differenzierebbero radicalmente, premiando l’egoismo dei territori con il Pil più alto. Aumentando il disagio nelle regioni povere, invece di innalzare i livelli e dare pari opportunità da Milano a Caltanissetta. Più scuole per l’infanzia e più tempo pieno per tutti, palestre, edifici decenti, stipendi adeguati e standard europei resteranno un sogno nel cassetto. «L’istruzione è un diritto universale – sostiene Gaetano Domenici, pedagogista, già preside della facoltà di Scienze della formazione dell’università Roma Tre -. Un diritto che deve essere garantito senza differenze di alcun genere, con criteri di inclusività, assicurando pari opportunità, a prescindere dal luogo di nascita e dalla condizione economica e sociale, perché non ci siano cittadini di serie A e serie B, ma cittadini in possesso degli strumenti di conoscenza necessari per vivere e lavorare in una moderna democrazia».

Il ministro per gli Affari regionali Roberto Calderoli

Nelle regioni più industrializzate e più ricche è facile immaginare scuole migliori, più dotate di laboratori, attrezzature, dotazioni informatiche, biblioteche e quant’altro. Con insegnanti più pagati e offerte formative di più alto livello. Gli altri? Dovranno sperare in meccanismi perequativi che a dire la verità non hanno mai funzionato. Basta guardare la sanità. Dalla Sardegna, Calabria, Sicilia, dal Sud in generale, la gente parte per i viaggi della speranza perché mancano strutture ospedaliere e quelle che ci sono non ce la fanno a rispondere ai bisogni. Ma come siamo arrivati al Ddl? E perché il governo ha fretta? Fortemente voluto dalla Lega, il progetto sull’autonomia differenziata del ministro per gli Affari regionali Calderoli è stato presentato il primo febbraio in un pre-Consiglio dei ministri (senza neppure un passaggio preventivo nella Conferenza Stato-Regioni) e in gran fretta licenziato da Palazzo Chigi con il sì unanime dei partiti di governo, benché all’interno vi siano non pochi distinguo. Primo fra tutti quello di Fdi. Infatti, il  regionalismo leghista contrasta con l’idea di “nazione”, ma pare che la Meloni lasci correre sia per garantire compattezza all’interno della maggioranza, sia per non incontrare ostacoli quando si dovrà discutere la legge costituzionale per introdurre il presidenzialismo che le sta molto a cuore (su cui sta lavorando la senatrice Casellati dall’inizio della legislatura). Regionalismo-presidenzialismo sono una grossa partita. Sul primo punto il governo in carica si è impegnato fin dalla legge di Bilancio approvata a dicembre. All’interno è stato inserito un articolo che stabilisce i tempi, sei mesi, per definire i Lep, Livelli essenziali delle prestazioni, base indispensabile per attuare l’autonomia differenziata. Un’anticipazione dell’art. 3 della legge quadro presentata da Calderoli, in cui si precisa che i Lep definiranno le «prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» e relativi costi e fabbisogni da determinare con uno o più decreti del presidente del Consiglio.

Il costituzionalista Michele Ainis

Diritti garantiti come? Non si sa. Non è stato stanziato neppure un euro, né si parla di riequilibrio tra le regioni prima di aprire le porte all’autonomia. Il Ddl si limita ad enunciare che si potrà procedere al trasferimento delle funzioni dallo Stato alle Regioni (art. 4) solo dopo l’entrata in vigore di provvedimenti legislativi che stanzino risorse  coerenti con gli obiettivi. Ma su come e dove reperire i fondi non c’è una parola. E poi, quali obiettivi? Appare inevitabile che si creino diritti di cittadinanza diversi nei territori. Il proposito di legare i livelli essenziali delle prestazioni alla “spesa storica” finirebbe per cristallizzare il divario già esistente. Ma come ha sottolineato più volte il costituzionalista Michele Ainis i diritti fondamentali non possono che essere esercitati in condizione di uguaglianza. Perché il diritto ad istruirti o a curarti, o il diritto alla sicurezza, non possono dipendere dal fatto che sei nato a Sondrio o a Messina. Tutto è cominciato con la riforma del titolo V, fatta dall’Ulivo nel 2001, con D’Alema presidente del Consiglio. Allora fu modificato l’art. 116 della Costituzione, inserendo il principio del regionalismo differenziato, concedendo alle Regioni a statuto ordinario di aumentare le proprie competenze in ambiti amministrati dallo Stato (sulle materie di cui al terzo comma dell’art.117). Con dei limiti, però. Indicando «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», limitatamente a determinate materie e secondo uno specifico procedimento. Ma ora, le “condizioni particolari” e il “limitatamente” dal disegno leghista sono spariti. Le regioni possono chiedere autonomia e poteri su tutto ciò che vogliono, possono chiedere che vengano trasferite le funzioni finora esercitate dallo Stato, su tutte le 23 materie “concorrenti”, finite in un unico calderone come se fossero tutte uguali.

Intanto si allarga il fronte della protesta. Diversi presidenti di regione sono pronti a scendere in piazza. Non si tratta solo di quelli del Pd, anche i presidenti delle regioni meridionali del centrodestra sono tutt’altro che convinti del testo Calderoli. Preoccupato dei servizi essenziali come sanità e scuola il governatore della Sicilia, Renato Schifani, di Forza Italia, dice: «Non possono esserci medici o professori più pagati al Nord e meno al Sud». Ma i toni più duri sono del governatore Pd della Campania, Vincenzo De Luca: «Una proposta inaccettabile che spacca l’Italia, che porta allo smantellamento della sanità pubblica e della scuola pubblica statale». Quanto alla scuola ad agitare le acque non c’è soltanto il Ddl Calderoli. Ci sono anche le dichiarazioni fatte da un altro autorevole esponente leghista, il ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara, ex An, che ha sollevato una tempesta di critiche per l’ipotesi di differenziare gli stipendi dei docenti in base al costo della vita nelle diverse regioni. Più soldi agli insegnanti del Nord, meno a quelli del Sud, calcolando che al Sud si spende meno per vivere. Anche se uno studio fatto dalla Uil ha dimostrato che non è esattamente così. Il costo degli affitti, per esempio, in molte località sfugge alla presunta regola del Sud meno caro. Ma il ministro Valditara ha anche aperto al possibile finanziamento dei privati nelle singole realtà scolastiche: «Bisogna trovare nuove strade, anche sperimentali, di sinergia tra il sistema produttivo, la società civile e la scuola, per finanziare l’istruzione, oltre allo sforzo fatto dal governo». Il ministro lo ha dichiarato in un intervento fatto sulla piattaforma di dialogo promossa da PwC e gruppo Gedi dal titolo “Italia 2023: persone, lavoro, impresa”.

Giuseppe Valditara il ministro dell’Istruzione e del Merito

Secca la bocciatura dei sindacati: «Niente gabbie salariali, il Paese è già abbastanza diviso. E giù le mani dei privati dalla scuola pubblica, che deve restare unitaria e democratica. Il ministro finanzi il contratto collettivo e approvi stipendi più alti per tutti». E la questione salariale non va affrontata mettendo in competizione i territori. I sindacati infatti rifiutano la disarticolazione del sistema contrattuale e temono la distruzione della scuola pubblica. Valditara ha poi ammorbidito i toni, precisando che in realtà lui vorrebbe «tenere conto delle differenze territoriali e del costo della vita solo attraverso il contratto integrativo». Ed ha aggiunto: «Non è mai stato messo in discussione il contratto nazionale, non ho mai parlato di compensi diversi fra Nord e Sud». Tuttavia il ministro pensa a forme di finanziamento privato, anche per coprire gli stipendi dei prof che potrebbero subire una differenziazione regionale. E per evitare il rischio di trovare molte aziende disposte a finanziare gli istituti solo in alcuni territori, creando disparità insanabili per la scuola pubblica, secondo il ministro la soluzione è «la creazione di un fondo perequativo centralizzato e ministeriale che consenta, con i fondi attratti per un liceo di Brescia, di finanziarne anche uno a Palermo o un istituto professionale a Caserta». Decisamente contrari sindacati e opposizione: «Quella di cui parla è la scuola delle disuguaglianze! In linea con le proposte sul regionalismo leghista, l’apertura ai finanziamenti privati inoltre creerà spaccature e nuove forme di povertà, aumentando il disagio. Perché il ministro non si preoccupa delle migliaia di studenti che ogni anno abbandonano la scuola?». La dispersione scolastica secondo i dati Istat è del 12,7%, la terza più alta nell’Ue. Inoltre ci sono grandi differenze territoriali, che vedono il Sud in testa alla classifica dell’abbandono, con picchi che toccano il 35 per cento. Un fenomeno che, quasi sempre, è legato a condizioni di povertà economica e culturale. © RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Giornalista professionista, ha lavorato al “Messaggero” dal 1986 al 2010. Prima la “gavetta” in Cronaca di Roma, fondamentale palestra per fare esperienza e imparare il mestiere, scelto per passione. Si è occupata a lungo di degrado della città, con inchieste sugli abusi che hanno deturpato il centro storico. Dal 1997 ha lavorato alle Cronache italiane, con qualifica di vice caposervizio, continuando a scrivere. Un filo rosso attraversa la sua carriera professionale: scuola, università e ricerca per lei hanno sempre meritato attenzione, con servizi e numerose inchieste.