
Qualche somma, a questo punto, occorre tirarla: 7 milioni di profughi, più di 100mila militari ucraini morti o feriti, altrettanti fra i militari russi (per il “New York Times” questi ultimi sarebbero addirittura 200mila). Sono le cifre di una tragedia annunciata. Troppo attraente, quell’Unione europea del benessere e dei diritti, agli occhi dei popoli sottoposti al dominio degli oligarchi ex sovietici ebbri di capitalismo selvaggio. Le chiavi del rebus ucraino sono rimaste troppo a lungo, e inutilmente, nelle mani dell’Europa a trazione tedesca. Quasi tre lustri, un’eternità, per rispondere alla domanda fatidica: aprire a Kiev le porte dell’Alleanza Atlantica o dell’Unione Europea? L’Ucraina ora è già, di fatto, nella Nato e l’Unione Europea — bon gré mal gré — esegue i piani militari definiti a Washington. C’è un modo diverso di porre fine alle ostilità e alla carneficina nella pianura sarmatica se non definendo uno statuto speciale per le regioni contese garantito dalle superpotenze? E chi potrebbe provarci, con qualche possibilità di successo, se non un’Unione europea che volesse spendersi per costruire sul serio un ordine internazionale multipolare? Se il tempo non è già scaduto
Questo editoriale apre il numero 35 del nostro magazine distribuito nelle edicole digitali dal 16 febbraio 2023
L’editoriale di IGOR STAGLIANÒ
IL PRIMO MISSILE fu fatto esplodere nel buio che precede l’alba. Il suo bagliore sarebbe stato più impressionante nel cielo ancora nero della notte. Qualche ora dopo furono le antenne di telecomunicazioni di Kiev a venire giù nel chiarore plumbeo del mattino. Il 24 febbraio di un anno fa l’Europa si svegliò dal suo torpore con i carri armati russi che violavano un paese sovrano. L’invasione di Putin era l’inizio del secondo tempo di un conflitto iniziato — negli stessi giorni — otto anni prima. Cominciava la Guerra Grande per il ridisegno del mondo, per dirla con Lucio Caracciolo. Tre i protagonisti: Stati Uniti, Cina e Russia. Russi e americani «si affrontano lungo i bordi dell’Eurasia occidentale, fra Mar Nero e Baltico, epicentro Ucraina»: gli uni per contrastare il proprio declino, gli altri per riaffermare la propria forza declinante. I due antagonisti principali Stati Uniti e Cina sono «in frizione crescente nell’Indo-Pacifico», per definire nuovi equilibri imperiali. Vittime immediate: popolo ucraino ed Europa unita.
A un anno dall’avvio dello scontro diretto in Ucraina, qualche somma occorre tirarla: 7 milioni di profughi, più di 100mila militari ucraini morti o feriti, altrettanti fra i militari russi (per il “New York Times” questi ultimi sarebbero addirittura 200mila). Sono le cifre di una tragedia annunciata. Troppo attraente, quell’Unione europea del benessere e dei diritti, agli occhi dei popoli sottoposti al dominio degli oligarchi ex sovietici ebbri di capitalismo selvaggio. Una calamita inammissibile per le mire espansioniste del loro capo. La guerra all’Ucraina, in questa chiave, è anche la sfida esistenziale del presidente russo all’Unione europea: un protagonista politico ed economico di prima grandezza — l’Europa prospera —, in grado di allargarsi senza usare le armi; un nemico temibile perché non ha avuto bisogno di imporsi con soldati, carri armati e missili puntati in faccia agli altri.

Attaccando l’Europa politica per interposta Ucraina, Putin ha voluto difendersi non dalla potenza militare (inesistente) dell’Ue ma dalla sua democrazia. Ed è qui che si consuma la tragedia esplosa nelle steppe orientali tornate a tingersi di sangue, iniziata nel febbraio del 2014 nella Piazza Maidan della capitale ucraina, in Crimea e nel Donbass. Al bivio del suo destino, l’Europa a trazione tedesca paga il conto. Le chiavi del rebus ucraino sono rimaste troppo a lungo, e inutilmente, nelle sue mani. Quasi tre lustri, un’eternità, per rispondere alla domanda fatidica: aprire a Kiev le porte dell’Alleanza Atlantica o dell’Unione Europea? Nessun impegno effettivo a dar seguito al Trattato di Minsk siglato dai capi di Stato di Ucraina, Russia, Francia e Germania per garantire il pieno controllo ucraino del confine di Stato con la Russia e, contemporaneamente, maggiore autonomia alle regioni russofone separatiste.

A sciogliere il dilemma ci hanno pensato, nel frattempo, le armi angloamericane fornite all’esercito ucraino e i missili sparati da Putin, finito in trappola nei suoi piani imperialistici. L’Ucraina come nazione è nata, realmente, in questa guerra. C’è da sperare che diventi anche democratica. Ora è già, di fatto, nella Nato, e l’Unione Europea — bon gré mal gré — esegue i piani militari definiti a Washington e trasmessi a Bruxelles brevi manu o illustrati direttamente dal comandante in capo Joe Biden in Polonia. Divenuta Comando operativo generale e bastione Nato contro la Russia, da europeista riluttante ed emarginato qual era. Essendoci schierati a fianco del popolo aggredito dall’autocrate russo, non ci era parsa una buona idea sovrapporre Europa e Nato con un baricentro militare spostato sempre più ad Est, come pessima era stata quella di spingere i nostri confini militari fino alle soglie di Mosca. Il crescendo inarrestabile della guerra lo dimostra. Sempre che l’obiettivo europeo — se ce n’è ancora uno — sia quello di fermare ostilità e distruzioni: calcolate, ad oggi, in oltre 600 miliardi di dollari. Altra cosa è pensare di poter “spianare” una potenza nucleare con un’altra guerra mondiale sul suolo europeo, sfruttando a proprio vantaggio l’autolesionismo strategico del nuovo zar. Se è così non può essere la nostra guerra. E l’Europa dovrebbe avere l’orgoglio di ricordarsi che l’Occidente ha le radici tra l’Egeo e lo Stretto di Gibilterra.
Ed è qui che misuriamo la tragica occasione mancata di un’alleanza tra eguali fra le due sponde dell’Atlantico. Un fallimento politico che ha radici lontane: la Comunità europea di difesa fu bocciata la prima volta dall’Assemblea nazionale francese nel 1954, dal referendum transalpino sulla Costituzione europea cinquantuno anni dopo. Gli Stati Uniti d’Europa sono così evaporati e, con essi, la svolta nella storia del Continente insanguinato da due guerre mondiali. L’esito è sotto i nostri occhi. Il nazionalismo politico impazza e i 27 Stati dell’Unione europea spendono per la loro difesa tre volte più, in termini assoluti, della Federazione Russa che possiede il secondo esercito più forte al mondo con un decimo di quanto spendono gli Stati Uniti. Ma l’Europa rinuncia ad avere un esercito comune perché ha rinunciato alla propria indipendenza in politica estera, ed esprime come Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri Josep Borrell che parla come un armaiolo. Meno impegnativo — per esponenti di così bassa statura politica — starsene all’ombra della protezione nucleare americana, come se il pasto fosse gratis. E agli Stati Uniti va bene così. Un’Unione europea forte avrebbe significato un euro forte e una moneta internazionale capace di competere con il dollaro, come moneta di riserva e come moneta di scambio sui mercati mondiali. Prima della crisi ucraina, questo orizzonte sembrava ancora alla nostra portata.

A farcelo credere era stata la politica comune europea nella gestione della pandemia, le ingenti risorse messe a disposizione con Next Generation Eu e Pnrr per fronteggiarne le conseguenze sociali. Un mix virtuoso che ha creato, nei federalisti europei conseguenti come noi, un’illusione ottica. Quella di esserci lasciati alle spalle le miopie nazionalistiche che hanno insanguinato il Continente. Rinfocolate, viceversa, negli ultimi anni dagli investimenti putiniani sui sovranisti tedeschi, francesi, italiani, polacchi o ungheresi, in combutta con i dottor Stranamore semi fascisti alla Steve Bannon: secondo stime accreditate, in Germania QAnon (teoria del complotto di matrice statunitense a fianco di Trump) conta 150mila simpatizzanti.
E qui torniamo alla guerra in corso. C’è un modo diverso di porre fine alle ostilità e alla carneficina nella pianura sarmatica se non definendo uno statuto speciale per le regioni contese garantito dalle superpotenze? E chi potrebbe provarci, con qualche possibilità di successo, se non un’Unione europea che volesse spendersi sul serio per costruire un ordine internazionale multipolare? L’attivismo del ministro degli Esteri cinese Wang Yi apre un varco. I costi crescenti della guerra lo suggeriscono. La debolezza della leadership europea lo esclude. Saranno gli interessi strategici degli Stati Uniti a imporlo. Il punto è: quando? Dopo quanti altri morti? © RIPRODUZIONE RISERVATA