L’Amministrazione Biden ha annunciato con giubilo che in California è stata prodotta in laboratorio l’energia del sole. Varie e autorevoli voci hanno ricordato che bisognerà attendere decenni per avere la disponibilità commerciale dell’energia elettrica prodotta da un reattore a fusione. Che facciamo, nel frattempo, tra un brindisi e l’altro per il felice incontro tra scienza e tecnologia? Possiamo, ad esempio, rileggere gli strafalcioni disseminati da grandi e piccole firme del giornalismo italiano sull’energia pulita, illimitata e a buon mercato da qui a qualche decennio. Un paio di esempi: la «velocità superiore a quella della luce» (su “Repubblica”), «l’acqua ‘pesante’, cioè non distillata» che sarebbe usata come «materia prima» per l’energia del futuro nella descrizione “creativa” di Federico Rampini sul “Corriere della Sera”. Urgono corsi serali accelerati …di recupero

L’analisi di MASSIMO SCALIA, fisico matematico
DIFFICILMENTE LA GRANDE stampa ha raggiunto un livello così basso come nel celebrare la fusione nucleare, in occasione dello strombazzatissimo risultato ottenuto il 5 dicembre scorso al Livermore Laboratory (California) negli Stati Uniti, come il Saint-Graal dell’energia, la fonte illimitata e pulita che risolverà i problemi di approvvigionamento energetico dell’umanità. È stato già rimarcato [leggi qui nota 1] che, frivoli e festaioli, varie firme più o meno grandi del nostro giornalismo hanno ormai messo sotto il tappeto quel “non c’è più tempo”. Il V° rapporto dell’Ipcc nel 2015 aveva anticipato il «punto di non ritorno» della crisi climatica dal 2050 al 2030, quest’ultima essendo divenuta la data di riferimento per i programmi energia-clima di tutti i Paesi, e quello slogan divenne appena un anno fa non solo di Greta Thurnberg ma dei premier riuniti al G20 di Roma.

Poiché varie e autorevoli voci si sono levate a ricordare — a proposito dell’esperimento del Livermore — che per la disponibilità commerciale dell’energia elettrica prodotta da un reattore a fusione bisognerà attendere decenni, che facciamo nel frattempo tra un brindisi e l’altro per il felice incontro tra scienza e tecnologia? Quel che dobbiamo fare, e a tambur battente, questo giornale l’ha ripetuto un numero spudorato di volte. E lo ripeterà ancora. Per il momento basti ricordare, agli smemorati, che la “linea del Piave climatica” fissata al 2025 è quel che raccomanda Next Generation Eu riguardo agli obiettivi energia-clima dei Pnrr; e che la stessa data è stata assunta dal governo cinese per realizzare un programma di fonti rinnovabili di nuovi 1200 GW — una vera caterva! —, che, en passant, fa impallidire i 350 GW previsti, ma per 5 anni dopo, dalla Ue. Altro che decenni!
La sottovalutazione del problema energia-clima da parte del sistema mediatico italiano è storica. E fa sorgere il sospetto che dimenticanze e omissioni siano state e siano ben oliate da chi ha elevato il greenwashing a pop art (vedi “Plenitude” al festival di Sanremo): l’Eni. Ma, nell’inneggiare al “sol dell’avvenire” della fusione, i media italiani, soprattutto la stampa, si sono distinti per l’incredibile quantità di minchiate professate senza vergogna nel presentare l’esperimento del Livermore. Per un’analisi puntuale e documentata — che condividiamo — rimandiamo a questo link: https://attivissimo.blogspot.com/2022/12/fusione-nucleare-le-minchiate.html, rivendicando solo la primogenitura della diffusione, da tempo, del termine “minchiata” in un contesto diverso da quello del commissario Montalbano.
Si va da «velocità superiore a quella della luce» (Repubblica), per di più attribuita al fisico Marvin Adams, uno del Livermore, che ovviamente non si è mai sognato di dirla, alla «mezza palla da basket», che sarebbe dovuta entrare nel «cilindretto lungo pochi millimetri» (Ansa), per arrivare a quel che Federico Rampini scrive su Corsera nel corso di un’intervista a Claudio Descalzi, Ceo di Eni, a proposito della fusione: «usa come materia prima l’acqua ‘pesante’, cioè non distillata: anche quella di mare». La distinzione dell’acqua “pesante” come “non distillata” dovrebbe far arrossire uno studente delle superiori, ma si sa che Rampini è troppo impegnato per le “magnifiche sorti e progressive”, col suo abituale sussiego degagé, beninteso, per badare a queste inezie. Nel prosieguo dell’intervista, dopo averci illuminato che «è il contrario della fissione», della fusione Descalzi dice, virgolettato, che «non genera radioattività, non produce scorie».

Non pensiamo, certo, che Rampini possa attribuire a Descalzi un pensiero non suo, come ha fatto con Marvin Adams il giornalista di Repubblica. Scherziamo? Quello è uno che vive negli Stati Uniti e si occupa, poveraccio, di scienza; qui si tratta del Mascellone, uno che fa il buono e il cattivo tempo, per gli italiani, sulla politica energetica del Paese. E non solo. Allora, poiché Rampini mai si permetterebbe, il Ceo di Eni non sa che la fusione impiega il Trizio, elemento radioattivo che, nel reattore, non viene eliminato completamente dalla reazione e resta come scoria? E i raggi X e gamma, sono carezze e non radiazioni ionizzanti emesse come prodotto della reazione Deuterio-Trizio? E, soprattutto, l’attivazione neutronica dei materiali di contenimento? Descalzi come i giornalisti, solo che le sue sono minchiate più retribuite. E lasciamo perdere ogni confronto con Mattei sulla promozione industriale del Paese. Anzi, su tutto.
Eppure, Eni fa parte del consorzio per la realizzazione del DTT (Divertor Tokamak Test), una macchina progettata da Enea, il cui vanto è proprio non ricorrere al Trizio come “combustibile”. Unica perla, per un progetto che, preteso come supporto a Iter (International Thermonuclear Experimental Reactor), si deve confrontare col fatto che Iter il suo “Divertore” ce l’ha già dal 2016, si chiama WEST (W Environment in Steady-state Tokamak). E che il processo di fusione di Iter è basato proprio sulla reazione Deuterio-Trizio.
Già, Iter. È bene ribadire che a Cadarache, in Provenza, si è dato il via, da anni, a un colossale impianto per produrre elettricità da fusione nucleare senza che fosse stato acquisito sperimentalmente il rapporto positivo tra energia prodotta e energia necessaria (net energy gain) per “accendere” la fusione. Al di là dei costi, enormi, c’è da restare bouche beant di fronte al rapporto che questo modo di procedere ha instaurato tra scienza, tecnologia, processo politico di decisione e informazione dei cittadini. Un popolo incolpevolmente disinformato, una casta di giornalisti ignoranti ma pronti a propalare il mainstream predicato dall’Amministrazione Usa, una diffusione di miti energetici venturi in luogo dell’affrontare la drammatica urgenza della «strada verso l’inferno» che stiamo percorrendo «col piede sull’acceleratore» — per citare, una volta ancora, il segretario generale dell’Onu Antonío Guterres in apertura della Cop27 in Egitto poche settimane fa. Ce ne sarebbe da mollare, se non per il fatto che «cambiare lo stato presente delle cose» diventa sempre più un imperativo etico non rinunciabile.

Ma poi questo guadagno netto d’energia — tra quanta se ne è impiegata per avviare il processo di fusione e quanta se n’è prodotta — c’è stato? Il comunicato stampa del Livermore afferma che si sono ottenuti 3,15 MJ d’energia ‘in uscita’ dal target mentre 2,05 MJ erano quelli forniti ‘in entrata’, cioè, basta fare la divisione, un guadagno del 50% [leggi qui nota 2]. «Si tratta di una delle più impressionanti imprese scientifiche del XXI secolo», ha esultato Jennifer Granholm, Segretaria all’Energia dell’Amministrazione Biden, mentre dall’altra parte dell’America, nell’East Cost, il professor Dennis Whyte, leader nella ricerca sulla fusione, auspicava dal Mit (Massachusetts Institute of Technology) di «spingere per rendere disponibili gli impianti di fusione per fronteggiare il cambiamento climatico e per la sicurezza energetica».
Il convergere degli interessi dei gruppi scientifici della fusione — tenere alto il budget per questa ricerca è un impegno storico che non ha mai guardato troppo per il sottile — con l’eccezionale rilievo politico che è stato dato all’evento ricorda un po’ i primi tempi delle passeggiate nello spazio, che poi lì si sono fermate da cinquant’anni. E nell’imperiale risuonare dell’inno stars and strips togliamo la mano dal petto, solo per un momento, per dare orecchio a qualche guastafeste che ha osservato che se nell’esperimento del Livermore si considera tutta l’energia impiegata e non solo quella che incide sul target, lungi dall’esserci un guadagno netto, si ha un rendimento da prefisso telefonico. Maldicenza? Vedremo sulla base del rendiconto scientifico dell’esperimento, intanto ecco una minuscola pulce nell’orecchio per i giornalisti che stanno ancora con la mano sul petto. Maggior aplomb, please, e, magari, un po’ d’entusiasmo in più per quel che si può fare — e si deve fare — nei prossimi anni, non decenni. E quelli che sparano minchiate? Beh, desistano e …corsi serali accelerati. © RIPRODUZIONE RISERVATA