Non era un filosofo ma un rigoroso servitore dello Stato, prima al Comune di Bari e per molti anni alla Regione Puglia. Ma, una volta riposte nel cassetto dell’ufficio pratiche, cartelline e progetti, incontrava, a casa, insieme alla moglie, Rosa Lettini, sua Musa straordinaria ma anche sua compagna di “calamo”, gli altri suoi amori disperati. Oltre a quello per lei. Ha scritto ventidue opere teatrali, delle quali nove in lingua e 13 in dialetto barese. Era coltissimo. E non poteva essere altrimenti, per uno scrittore che conosceva nel profondo e Pirandello e Gioacchino Belli, e Menandro e Aristofane, e Ignazio Buttitta e Giovanni Meli. Ma anche Carlo Goldoni. Il figlio Nico, giurista dell’Università di Bari, ha trascorso notti insonni per raccogliere e catalogare l’opera “omnia” del suo papà, ora pubblicata in tre eleganti volumi per Cacucci Editore


◆ L’articolo di ARTURO GUASTELLA

Di una città, di una polis, con ancora non molti uomini e dei quali era ancora possibile individuare dall’idioma, dalle particolari inflessioni della parlata, persino il quartiere di nascita. Di una città della quale il poeta, il letterato, il teatrante è il più appassionato e “disperato” amante. Di un amore impossibile da raccontare, se non immergendosi nella sua lingua. Quella dei vicoli, dell’angiporto, dei rapporti di prossimità tra vicini, amanti, rivali, mogli, mariti e figli. E, poi, coglierne i tratti, le storie, i dolori, le fattezze e portarli su di un palcoscenico, dove tu ed io, possiamo riconoscerci. Piangere, quando è il suo momento. Ridere e sorridere, non sempre per situazioni e vicende, ma anche per un fonema fulmineo, scaturito dall’abisso della gola e dalla chiostra dei denti di un attore, di un protagonista, e che magari è lo stesso che ricordiamo aver sentito prorompere dalla finestra dal nostro vicino di casa. Il dialetto, insomma. Quello nostro, quello del Sud, il discorrere, il “dialegomai”, dei primi abitanti greci di queste terre. Le conversazioni fra gente comune, che si racconta di cose comuni, di sentimenti e di passioni, di gioie e di tragedie. 

La città è Bari. E il suo disperato innamorato è Domenico Triggiani. Non l’ho mai conosciuto. Ma l’ho incontrato moltissime volte. E, come il Jan Van Eyck che ritraeva i personaggi dei suoi dipinti con uno specchio, o le stesse Veneri di un Velasquez, di un Rubens o di un Paolo Veronese riflesse, anch’esse, da uno specchio, così Domenico Triggiani l’ho incontrato negli occhi e nei racconti di suo figlio Nicola. Il mio antico amico Nico, cui le Pandette e i Codici (è Ordinario di Diritto Processuale Penale dell’Università di Bari) non gli hanno impedito di trascorrere notti insonni per raccogliere e catalogare l’opera “omnia” del suo papà ora pubblicata in tre eleganti volumi per Cacucci Editore. È l’omaggio di un figlio ad un grande genitore, così come, a quanto si racconta, Aristotele dedicò a suo padre, medico alla corte di Filippo il Macedone, una delle sue opere più importanti. L’“Etica Nicomachea”, per l’appunto. E Nicomaco era il nome del padre, ma anche del figlio dello Stagirita. 

Certo Domenico Triggiani non era un filosofo, ma un rigoroso servitore dello Stato, prima al Comune di Bari e, quindi, per molti anni alla Regione Puglia. Ma, una volta riposte nel cassetto dell’ufficio, pratiche, cartelline e progetti, incontrava, a casa, insieme alla moglie, Rosa Lettini, sua Musa straordinaria, ma anche sua compagna di “calamo”, gli altri suoi amori disperati. Oltre a quello per lei. E, come in una successione di specchi, Domenico Triggiani è stato moltissimi personaggi, un intellettuale, un poeta, uno scrittore, uno sceneggiatore raffinato e complesso. In grado di scrivere ventidue opere teatrali (ma sono state molte di più), dei quali nove in lingua e 13 in dialetto barese. Coltissimo. E non poteva essere altrimenti, per uno scrittore che conosceva nel profondo e Pirandello e Gioacchino Belli, e Menandro e Aristofane, e Ignazio Buttitta e Giovanni Meli. Ma anche Carlo Goldoni. «Stavamo andando a Venezia in treno – si lascia andare al ricordo, il figlio Nicola –, insieme ai miei genitori e ai miei fratelli Vincenzo e Camilla, mentre nello scompartimento accanto al nostro viaggiavano una coppia di sposini baresi, che andavano a Venezia, in viaggio di nozze». «I due ragazzi parlavano in uno stretto vernacolo barese, scambiandosi battute e raccontando vicende di quartiere davvero esilaranti. E noi, tutti noi, nello scompartimento a fianco non facevamo che ridere». «Mio padre – continua il prof. Triggiani – ascoltava e sorrideva. Rideva ed ascoltava, e poi, ritornati in Puglia, ecco pronta la sua prima commedia dialettale Le Barìse a Venèzie». 

Sorride a sua volta, il mio amico Nico, al ricordo di quella gita nella città di Goldoni, di quei due sposini baresi e dell’importanza che hanno avuto nella scrittura teatrale in dialetto del papà Domenico. E non si creda che l’affetto di un figlio possa aver ingigantito la figura e l’opera di Domenico Triggiani. È forse vero il contrario, in quanto “l’aedo barese” rifulge di un tale splendore intellettuale, di una tale fama letteraria, da mettere in soggezione perfino il figlio professore. Come quando la sera, racconta, «in procinto di andare a letto, vedevo il mio papà assorto nella sua scrittura, circondato da libri e fogli sparsi, ed io, che gli davo la buona notte quasi in silenzio, per non disturbarlo». «Le opere di Domenico Triggiani – hanno scritto moltissimi critici di gran nome – oltre a custodire in uno scrigno prezioso il dialetto barese, sono di una sconcertante attualità e di una freschezza straordinaria, che ci riporta in mezzo alla gente, facendoci recuperare valori antichi, che, purtroppo, vanno sempre più sfumando in una realtà sempre più astratta». 

Domenico Triggiani, due sue commedie in dialetto e la copertina della sua opera omnia curata da Nicola Triggiani e Rosa Lettini (Cacucci Editore)

Ma, oltre che commediografo di vaglia, Domenico Triggiani fu molto altro. Un sodale di un altro mito barese, Ignazio Civera, musicista, giurista e fondatore dell’omonima Accademia d’Arte, che addirittura musicò, o comunque diede il suo contributo al musical Donne al Potere, di Domenico Triggiani, rappresentato al teatro Petruzzelli. Chi scrive, vorrebbe avere le competenze per commentare l’opera di Domenico Triggiani e, magari, recitarvi in dialetto qualche brano delle sue opere. Se è vero, però, come ha scritto qualcuno (forse Charles Baudelaire) che «anche gli usignoli cantano in dialetto», allora, quando i baresi vanno a sedersi su una di quelle panchine del giardinetto che il Municipio di Bari ha voluto intitolare al suo cantore, forse, aguzzando bene le orecchie, potranno assaporare gli spassosi duetti di Colino e Mariette. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Giornalista dal 1971. Ha alternato la sua carriera di biochimico con quella della scrittura. Ha diretto per 14 anni “Videolevante”, una televisione pugliese. Ha tenuto corrispondenze dall’Italia e dall’estero per “Il Messaggero”, “Corriere della Sera”, “Quotidiano”, “La Gazzetta del Mezzogiorno” per la quale è editorialista. Con la casa editrice Scorpione, ha pubblicato “Fatti Così” e, con i Libri di Icaro, “Taranto - tra pistole e ciminiere, storia di una saga criminale”, scritto a due mani con il Procuratore Generale della Corte d’Assise di Taranto, Nicolangelo Ghizzardi. Per i “Quaderni” del Circolo Rosselli, ha pubblicato, con Vittorio Emiliani, Piergiovanni Guzzo e Roberto Conforti, “Dossier Archeologia” e, per il Touring club italiano, i “Musei del Sud”.