Il despota del Cremlino traccia la sua “linea rossa” nei confronti dell’Europa democratica e sbarra il passo ad una eventuale visita del presidente del Parlamento europeo sul caso Navalnyj in Russia.  Il regime ex sovietico attacca frontalmente gli esponenti del Partito socialista europeo, e foraggia sottobanco la destra estrema contro i valori democratici. Il retroterra dell’ex agente del Kgb è lo stesso che ha rallentato l’evoluzione socialdemocratica della sinistra italiana, fino alla sua attuale scomparsa. Riflessioni a margine di una storia vissuta, sullo sfondo di una Guerra fredda di nuovo in movimento


Il commento di VITTORIO EMILIANI

¶¶¶ Non a caso il despota Vladimir Putin se l’è presa fieramente, opponendosi ad un suo eventuale viaggio in Russia, col presidente dell’Assemblea di Strasburgo, il nostro David Sassoli, nostro come italiano ed europeo, nostro come collega giornalista in Rai. Non a caso, perché Putin vede le assemblee democratiche, in qualunque latitudine, come una offesa al suo dispotismo di vecchio stampo, erede di quanti per decenni incatenarono l’Urss ad una dittatura che si reggeva sui gulag in cui spedire chi dissentiva. Insomma la Russia di oggi non ha alcuna tradizione democratica alle spalle (a parte i quaranta giorni di Kerenski, poca cosa davvero), nessuna assemblea eletta in modo veramente libero, senza ombre di coercizione da parte di questo Vladimir Putin che viene, figurarsi, dal Kgb e non si smentisce mai. Questa volta se l’è presa con Sassoli e altri esponenti del Parlamento europeo (come la vicepresidente della Commissione Vera Jurova, del Pse anche lei) ed è logico: il Parlamento, le libere elezioni, lo spaventano, gli fanno paura, sono l’esatto contrario del suo modo di pensare, di agire, quindi di governare. Orrore.

Ricordo quando il Pci mandava i suoi giovani più promettenti a studiare alla scuola di partito delle Frattocchie. O addirittura a Mosca e tornavano storditi, spaesati, incapaci di capire dove si trovavano. Nel loro Paese di origine tornavano muniti di occhiali che non consentivano loro di vederlo, di comprenderlo, di coglierne le differenze, le diversità, le sedimentazioni lontane della storia e quelle più vicine di una Resistenza alla quale avevano partecipato ma che raccontavano e si raccontavano come fatta solo da loro, dalle “Garibaldi”. E non era vero perché in Piemonte, culla della Resistenza, i primi a salire in montagna erano stati i giovani di Giustizia e Libertà, e nel Veneto i ragazzi venuti su con l’Azione Cattolica, le brigate “bianche”. La prima brigata partigiana anzi era nata in Liguria, nell’entroterra di Chiavari, la Pinan Cichero, creata da un partigiano cattolico, Aldo Gastaldi, nome di battaglia “Bisagno”, morto in circostanze poco chiare nei giorni della Liberazione, caduto da un camion; secondo alcuni fatto cadere (ma non c’erano prove) dai comunisti che ne temevano la straordinaria popolarità.

Al seguito di nostro padre segretario comunale mi capitò, ultimo di quattro figli, di girare mezza Italia: Liceo classico a Ferrara, Università non a Bologna dove già mi apprestavo ad andare, ma Voghera, quindi Pavia, e non Lettere come avrei voluto (o Scienze Politiche), “ma fai qualcosa che ti dia prospettive concrete, no!”, quindi Legge di cui gli esami di diritto pubblico (Costituzionale, Internazionale, Ecclesiastico, Diritto Romano, ecc.) mi affascinavano, ma Privato o Penale proprio per niente. E allora mi buttai nella politica universitaria (Unione Goliardica, radicali, socialisti, socialdemocratici, più avanti comunisti, ma più avanti), nella stampa di Ateneo (direttore di Ateneo Pavese nientemeno) e in quella politica e di costume (Comunità, Mondo, Espresso, molto presto il Giorno, diretto da Italo Pietra, Edoardo. Già comandante generale delle Brigate partigiane dell’Oltrepò le prime ad entrare a Milano ancora coi cecchini tedeschi sui tetti e il boia Raja all’Hotel Regina dove aveva esercitato la tortura più feroce.

Nel 1956 con la rivolta studentesca e operaia di Budapest capii che sarei stato di sinistra, mai però comunista. Togliatti appoggiò in pieno l’arrivo dei carri armati sovietici a schiacciare i moti ungheresi e quando seppe che il generale Maleter e il premier di quei giorni di rivolta anti-sovietica, Nagy, erano stati giustiziati, disse che aveva bevuto un bicchiere di vino in più, rosso naturalmente. Certo, Longo si comportò diversamente quando fu Praga a sollevarsi nel 1968, ma non bastava a noi, non bastava all’Europa. I dirigenti comunisti, fino ad Achille Occhetto, non capirono che l’Italia aveva bisogno che il Pci, socialdemocratico in Emilia, diventasse una grande forza socialista e democratica. Subito. Al più presto comunque. Scavalcando Craxi. Non dopo un logoramento di anni e anni che ha fatto praticamente sparire quella sinistra.

Nel Pd sono emersi altri protagonisti, come per un breve periodo Rutelli, che veniva dai Verdi, o adesso Letta, che arriva dai Popolari. C’è Zingaretti, mi si ribatterà, ma quale Zingaretti? Il presidente della Provincia di Roma che censiva i centri storici, che faceva catalogare gli alberi antichi della Sabina o quelli della Tuscia, che mostrava una solida cultura dell’urbanistica e dell’ambiente? Oppure il presidente della Regione Lazio che ha in pratica ripreso il Piano Casa della mai abbastanza deprecata Polverini, anche a Roma, appena dopo il fantasioso quartiere Coppedè, negli eleganti Villini da “gonfiare” di cubature come volevano e vogliono i costruttori e altro ancora? Fino a scontrarsi coi vincoli della Soprintendenza, quindi del ministero dei Beni Culturali, oggi della Cultura.

Torno per concludere al Pci e alle sue scuole di partito. L’ultima la fondò ad Albinea sopra a Reggio Emilia, patria del cooperativismo socialista di Prampolini. Ricordo che Renato Zangheri, già sindaco di Bologna “vetrina del comunismo emiliano” chiamato ad inaugurarla, cominciò con una frase di Andrea Costa, l’anarchico che aveva promosso il “socialismo elezionista”, primo deputato socialista della storia nel 1882: «I Comuni sono il focolare della cultura». È stato vero per anni, per decenni. Ma l’ex Pci ha preso altre strade, non quella di un Partito Socialista Europeo. E la sua tradizione si è come squagliata dopo aver dato molto a questo Paese. Ed è venuto meno quando di socialismo ovviamente democratico avevamo tanto bisogno. Magari di un partito rossoverde in un Paese che si è sfigurato e cementificato da solo. ♦ © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Foto: sotto il titolo, Il presidente del Parlamento europeo David Sassoli; in alto, il presidente russo Vladimir Putin; al centro, carro armato sovietico nella rivolta di Budapest nel 1956; in basso, Nicola Zingaretti presidente Regione Lazio

Direttore onorario - Ha cominciato a 21 anni a Comunità, poi all'Espresso da Milano, redattore e quindi inviato del Giorno con Italo Pietra dal 1961 al 1972. Dal 1974 inviato del Messaggero che ha poi diretto per sette anni (1980-87), deputato progressista nel '94, presidente della Fondazione Rossini e membro del CdA concerti di Santa Cecilia. Consigliere della RAI dal 1998 al 2002. Autore di una trentina di libri fra cui "Roma capitale Malamata", il Mulino.