Le foto che illustrano questa pagina sono tratte da internet; i nostri ringraziamenti vanno a tutti gli autori che contribuiscono a documentare, dai campi libici, una realtà rimossa

Torture disumane, dove la violenza e la crudeltà impongono dolori atroci. Con la minaccia di uccidere i prigionieri se le famiglie non pagano il riscatto. Sono nove i video che stanno circolando sul web. Immagini filmate dagli stessi aguzzini perché così vogliono farsi pagare dalle famiglie dei prigionieri, e che le famiglie hanno diffuso per chiedere aiuto e denunciare quanto sta avvenendo. I prigionieri sono i migranti che speravano di sbarcare in Europa, e che l’Europa – con purtroppo l’Italia in prima fila – non vuole, e per respingerli fa accordi perché siano trattenuti, in questo caso dalla Libia. Accordi che aprono la strada alla deportazione in luoghi di tortura. La violenza ai migranti è descritta in questo articolo di Emilio Drudi – tratto da “nuovidesaparecidos.net”, un sito che sta facendo una costante campagna di denuncia sul tragico scandalo di questi anni. Non pubblichiamo i video, perché non aggiungerebbero nulla, se non ulteriore dolore alle coscienze che non vogliono voltarsi dall’altra parte di fronte a questa tragedia


◆ L’articolo di EMILIO DRUDI *

I primi hanno cominciato a circolare sul web all’inizio di novembre. L’ultimo – ma c’è da credere che ce ne siano numerosi altri – risale a sabato 18. Sono nove brevi video orrendi: illustrano le torture inflitte ai profughi caduti nelle mani dei trafficanti in Libia. Sono stati girati in lager situati a Kufra, nel sud, l’oasi che è il primo luogo abitato in pieno deserto, venendo dal confine con il Sudan o con il Chad; e a Bani Walid, circa 180 chilometri a sud est di Tripoli e 140 a sud ovest di Misurata, lo snodo verso la costa delle strade che, attraverso il Sahara, arrivano dal Niger passando per Sabha e proprio per questo diventato da anni uno dei principali covi dei mercanti di esseri umani. Autori dei filmati sono gli stessi trafficanti, che li hanno inviati ai familiari delle vittime per sollecitare il pagamento del riscatto, pretendendo da 7,5 a 12 mila dollari, cifre spaventose per famiglie che non hanno nulla, in paesi dove il reddito medio è di 2 dollari al giorno.

Sono l’ultima versione di un sistema criminale che, iniziato nel Sinai quando era una delle vie di fuga dall’Africa Orientale verso Israele, va avanti da quasi quindici anni. In passato alle famiglie venivano inviate delle foto e spesso la richiesta veniva formulata “in diretta telefonica” durante le torture, in modo che i parenti potessero udire le grida di dolore e disperazione dei prigionieri. Ora i filmati mostrano “dal vivo”, con immagini e voci, quello che accade tutti i giorni nei lager ai ragazzi sequestrati: è come essere lì, a pochi metri di distanza dalla vittima che si contorce e urla dal dolore. Senza possibilità di scampo.

A mettere in rete i nove video è stata la Ong “Refugees in Libya”, che si sta adoperando per contattare i prigionieri e cercare di farli rilasciare al più presto. Glieli hanno fatti pervenire le famiglie delle vittime per denunciare alla comunità internazionale l’orrore che sta accadendo e chiedere aiuto. Durano tutti meno di un minuto, ma è un minuto di orrore.

Il primo, pubblicato il 4 novembre, riguarda un profugo eritreo, D. A., un ragazzo allo stremo che implora di farlo uscire da Bani Walid, raccontando tutti i tormenti a cui viene sottoposto giorno per giorno, incluse torture con forti scariche elettriche, di cui porta i segni su tutto il corpo. Poi è un massacro in crescendo. M. D. e L. B. sono due ragazze eritree: il video le mostra entrambe di spalle, schiacciate contro un muro del lager di Bani Walid, mentre vengono frustate a sangue sulla schiena con un lungo bastone semi-flessibile. La pelle è viola, gonfia, lacera. Entrambe sembrano non avere neanche la forza di urlare: gemono e si rannicchiano contro il muro sotto i colpi, di cui si sente il ritmo sordo. Ed è probabile che entrambe siano state violentate perché l’indagine condotta da “Refugees in Libya” afferma che numerose prigioniere vengono stuprate, confermando quanto è già da tempo emerso nei rapporti della Missione Onu e di tutte le principali Ong.

Sempre a Bani Walid sta vivendo il suo calvario A. T., un giovane etiope. Ha la schiena e le braccia devastate dai colpi ricevuti. Secondo le informazioni raccolte da “Refugees in Libya” è prigioniero insieme ad altri due ragazzi, uno dei quali, costretto a lavorare come interprete per pagarsi il riscatto, e a tre ragazze, due delle quali potrebbero essere M. e L..

A. M. ha solo 16 anni. Esile com’è, ne dimostra anche di meno. Il video lo documenta riverso a terra, sotto una tempesta di bastonate. Le sue urla sono laceranti, ma gli aguzzini non si fermano, lasciando intendere che continueranno così, tutti i giorni, fino a quando la famiglia non avrà pagato 12 mila dollari per liberarlo. Ancora più terribile – se è possibile – la condizione di K. G., un profugo etiope fuggito dalla guerra in Tigrai e poi finito in Libia, dove è stato catturato dai trafficanti: una robusta catena agganciata al collo lo lega al muro e le braccia sono saldamente immobilizzate dietro la schiena, così non può nemmeno provare a schivare o a ripararsi un po’ dai colpi.

Ma ogni filmato è terribile. E. D. E., 21 anni, è un eritreo prigioniero a Kufra. Fuggito dall’Eritrea il 10 settembre, ha attraversato l’Etiopia, poi il Sudan ed è entrato in Libia, ma a Kufra è stato catturato dai trafficanti. Il 31 ottobre la sua famiglia ha ricevuto un video angosciante. “Incaprettato”, con il corpo piegato ad arco da una fune che lega le braccia alle caviglie, seminudo, giace bocconi sul pavimento e appena cerca di divincolarsi per sottrarsi a qualche colpo uno degli aguzzini gli schiaccia la testa a terra con un piede.

A parte la sequela di frustate, alle quali non può che opporre urla disperate, la posizione in cui è costretto è dolorosissima di per sé e può portare alla morte. La banda di criminali che lo tiene prigioniero ha dettato le condizioni ai familiari usando un numero telefonico sudanese: pretendono 8.000 dollari. Al fratello maggiore, H., che vive in Etiopia, hanno detto senza mezzi termini che non esiteranno a uccidere E. se la somma non verrà versata al più presto. Al 10 novembre la famiglia era riuscita a mettere insieme circa 2.300 euro, ancora troppo poco.

A Kufra sono prigionieri altri due profughi eritrei, N. G. e M. A., le vittime degli ultimi video. N. è stato preso poco dopo l’arrivo dal Sudan. M. si è prima rifugiato in Etiopia, poi a Khartoum, ma è stato costretto a scappare anche dal Sudan, questa volta verso la Libia, a causa della guerra civile scoppiata nell’aprile scorso. A giudicare dalle immagini, probabilmente si trovano in un lager diverso da quello di E., ma l’orrore è lo stesso. Qui le torture sono inflitte in uno spiazzo all’aperto in terra battuta, circondato da un muro di blocchetti di cemento. I due ragazzi sono stesi a terra ai piedi della recinzione. N., seminudo, con le braccia bloccate dietro alla schiena, riesce a muoversi a malapena. M., completamente nudo, non è legato e si rotola nella polvere, ma i colpi lo raggiungono in tutto il corpo. Per ciascuno di loro il prezzo del riscatto è di 7.500 dollari.

«Nel sud della Libia, a Kufra, la situazione sta diventando sempre più ostile per i migranti e i rifugiati. La polizia e le forze di sicurezza sono state allertate su questo traffico di esseri umani su larga scala, ma finora non è stato fatto pressoché nulla per combattere questo crimine organizzato», denuncia “Refugees in Libya”, tanto da alimentare il sospetto che ci siano delle connivenze. Complicità o addirittura il coinvolgimento di rappresentanti delle istituzioni libiche nel traffico di esseri umani, del resto, sono state denunciate in passato anche dall’Onu, oltre che da numerose delle principali Ong. Ed è noto da sempre che Kufra e Bani Walid sono due delle basi principali dei mercanti di esseri umani. A Bani Walid, in particolare, si sono registrati episodi di violenza terribili, incluse due stragi con decine di vittime: la prima durante un tentativo di evasione da uno dei lager, l’altra come ritorsione nel contesto di una “guerra” tra clan rivali. Negli anni, come dimostrano i nove video, la situazione non è mai cambiata. Semmai è peggiorata ed è sottaciuta.

Evidentemente il governo di Tripoli non è in grado di intervenire per riportare un minimo di legalità. O è addirittura “reticente”. Anche nei centri di detenzione che dipendono direttamente dallo Stato, del resto, ricatti, abusi e violenze di ogni genere scandiscono la vita quotidiana dei prigionieri. Eppure l’Europa si ostina a definire la Libia un “paese sicuro”. Stipulando e rinnovando sistematicamente accordi e trattati che intrappolano i profughi/migranti in questo inferno e riportano indietro anche quelli che sono riusciti a fuggire ma vengono bloccati in mare dalla Guardia Costiera libica, il “gendarme di fiducia” rifornito di navi, mezzi, denaro, assistenza tecnica. A questo serve anche la finzione della zona di ricerca e soccorso libica, la Sar, che l’Europa si è inventata in modo da avere un qualche alibi per “giustificare” la propria colpevole inerzia nel soccorso alle barche dei migranti in difficoltà nel Mediterraneo centrale. E artefice di questa “politica” nei confronti della Libia è in particolare l’Italia, con tutti i governi degli ultimi anni, senza porre alcuna condizione e senza pretendere alcuna verifica a garanzia della vita e della dignità di migliaia di persone. Anzi, esaltando il “lavoro” svolto da Tripoli. Con tanto di ringraziamenti ufficiali. E proponendo nuovi accordi simili a quello con la Libia con altri stati, a cominciare dalla Tunisia, dove è in corso una campagna razzista contro i migranti subsahariani.

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(*) L’autore dirige www.nuovidesaparecidos.net

Già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de “Il Messaggero”, ha approfondito i problemi dell’immigrazione, occupandosi in particolare della tragedia dei profughi provenienti dal Sud del mondo ed è tra i fondatori del Comitato Nuovi Desaparecidos. Sui rifugiati e le politiche migratorie ha pubblicato “Fuga per la Vita”, Edizioni Simple (2018). Insieme a Marco Omizzolo ha scritto “Ciò che mi spezza il cuore. Eritrea: dalla grande speranza alla grande delusione”, un saggio inserito nella collettanea Migranti e Territori (Ediesse, 2015); e “Etnografia della nuova diaspora eritrea: origini, sviluppo e lotta contro la dittatura”, nella collettanea Migranti e Diritti (Edizioni Simple, gennaio 2017). È autore anche di tre libri legati alla persecuzione antisemita: due con la Giuntina (“Un Cammino lungo un anno, Gli ebrei salvati dal primo italiano Giusto tra le Nazioni” nel 2012; “Non ha dato prova di serio ravvedimento. Gli ebrei perseguitati nella provincia del duce”, nel 2014); il terzo con Emia Edizioni “Il Marchio di diversi” nel 2019.