Roma, manifestazione contro la morte di Ousmane Sylla nel Cpr di Ponte Galeria

In Italia sono attivi 9 Cpr (Centri per il rimpatrio): prigioni di fatto dove la stragrande maggioranza degli “ospiti” finisce in esecuzione di un provvedimento di polizia, senza aver commesso alcun reato e meno che mai in base a una sentenza di condanna emessa da una corte di giustizia. Una detenzione che può durare fino a 180 giorni senza neanche i diritti dei detenuti nei normali istituti di pena. Tra proteste, suicidi e rivolte. L’ultima sommossa pochi giorni fa a Macomer in Sardegna, una struttura concepita «per negare la dignità umana dei migranti», denunciano le associazioni di solidarietà. Situazioni analoghe nei Cpr di Potenza e Milano. Nel capoluogo lombardo gli inquirenti hanno trovato un presidio sanitario «assolutamente inadeguato», supporto psicologico «largamente insufficiente e fornito di personale che non conosceva la lingua degli immigrati trattenuti». Le camere «sporche», i bagni «in condizioni vergognose», il cibo «maleodorante, avariato e scaduto». Una situazione che il governo intende portare quanto prima, con i 2 Cpr in Albania, lontano dagli occhi lontano dl cuore…


◆ L’analisi di EMILIO DRUDI *

Lo hanno trovato impiccato nella sua cella del Centro per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, a Roma, la mattina del 4 febbraio scorso. In una scritta sul muro, il suo estremo, drammatico messaggio: «Riportate il mio corpo in Africa perché possa riposare in pace». Si chiamava Ousmane Sylla. Aveva solo 22 anni. Veniva dalla Guinea, sconvolta da decenni di dittatura, regimi militari, colpi di stato: l’ultimo nel 2021. Voleva raggiungere il fratello maggiore, esule in Francia, a Tolosa, ma è rimasto incastrato nel “sistema Italia” sui migranti. Sbarcato il 29 luglio 2023 a Lampedusa e fermato poi a Ventimiglia, è finito in un centro accoglienza del Cassinate (dove ha denunciato violenze e maltrattamenti), poi nel Cpr di Trapani e infine in quello di Roma. Un esame psichiatrico fatto a Trapani ne aveva sconsigliato la detenzione in una struttura come i Cpr. Non ne è stato tenuto conto. Ousmane ha retto ancora per qualche mese, finché ha deciso di farla finita: per protesta e disperazione.

In basso, un migrante tunisino di 30 anni si è cucito le labbra con il fil di ferro nel Cpr di via Corelli a Milano a novembre del 2023

Ousmane è l’ultima vittima dei 9 Cpr attivi in Italia: prigioni di fatto dove la stragrande maggioranza degli “ospiti” finisce in esecuzione di un provvedimento di polizia, senza aver commesso alcun reato e meno che mai in base a una sentenza di condanna emessa da una corte di giustizia, con la prospettiva di restarci fino a 180 giorni e senza nemmeno i diritti dei detenuti nei normali istituti di pena. In sostanza, una “morte civile” che si consuma giorno per giorno, nel chiuso di un campo di concentramento, un lager con condizioni di vita inumane. Le proteste o addirittura le rivolte contro questo sistema sono fin troppo note, anche se inascoltate. Basti ricordare le disperate richieste di aiuto lanciate nelle rarissime occasioni in cui i prigionieri riescono ad avere un contatto con l’esterno, le bocche cucite con sottile fil di ferro per denunciare il “silenziamento” a cui sono condannati, i tanti suicidi di chi, come Ousmane, non ce l’ha fatta a sopportare.

L’ultima sommossa è proprio di questi giorni: è esplosa nel Cpr di Macomer, in Sardegna, dove la notte tra il 24 e il 25 marzo numerosi detenuti hanno appiccato il fuoco ai materassi. «Una rivolta – ha scritto l’Unione Sarda – scoppiata a causa di una situazione che in tanti considerano insostenibile, minando le condizioni umane all’interno della struttura». Ancora più esplicita l’assemblea sarda No Cpr: «La situazione che c’è a Macomer deriva dalle finalità stesse di una struttura concepita per negare la dignità umana dei migranti».

La Procura ha aperto un’inchiesta. È la terza, negli ultimi mesi, sui Cpr italiani. Sul finire dello scorso anno, in dicembre, la magistratura milanese, partendo da una indagine per frode condotta dalla Guardia di Finanza, ha acceso un faro sul Cpr di via Corelli. Ne sono emerse condizioni allucinanti. Al momento dell’ispezione delle Fiamme Gialle, hanno scritto i pm Giovanna Cavalleri e Paolo Storari, «il presidio sanitario con medici e infermieri era assolutamente inadeguato». Mancavano, tra l’altro, medicinali e visite di idoneità alla vita nel centro per chi «aveva epilessia, tumore al cervello» ed altre gravi patologie. Il supporto psicologico «largamente insufficiente e fornito di personale che non conosceva la lingua degli immigrati trattenuti». Le camere «sporche», i bagni «in condizioni vergognose», il cibo «maleodorante, avariato e scaduto».

Il Cpr di Palazzo San Gervasio in provincia di Potenza (foto di Tony Vece)

Ancora più grave, se possibile, quello che, nel dicembre scorso, hanno trovato i magistrati di Potenza nel Cpr di Palazzo San Gervasio. Qui, oltre a condizioni di detenzione simili a quelle di Milano, si è scoperto che i reclusi – come scrive la Procura – venivano imbottiti di sedativi e ansiolitici «per neutralizzare ogni possibile lamentela per le condizioni disumane in cui spesso si trovavano a vivere…». «Quelli che creavano problemi venivano trattati come scimmie», ha specificato in particolare, in una conferenza stampa, il procuratore Francesco Curcio (che ha firmato quattro misure cautelari su una trentina di indagati), aggiungendo senza mezzi termini che questo abuso di psicofarmaci «su soggetti che si ritiene ipoteticamente possano dare fastidio perché un po’ agitati, è un modo di calpestare la dignità umana».

Questa serie di inchieste, tutte con le stesse radici, dimostra come non si tratti di casi isolati. Si tratta, piuttosto, di un intero sistema “malato” e disumanizzante, che dovrebbe essere smantellato perché viola palesemente i diritti umani e, appunto, la dignità di ogni singolo detenuto. Ma il Governo non intende in alcun modo mettere in discussione i Cpr. Al contrario: punta ad ampliarne la rete, esportando un lager di questo genere anche oltreconfine. È questa, infatti, la sostanza dell’accordo con l’Albania, della durata di 5 anni, firmato il 6 novembre 2023 e ratificato in via definitiva dal Senato il 15 febbraio. Di cosa si tratta lo ha specificato più volte la stessa premier Giorgia Meloni. In una piccola porzione di territorio albanese che passerà di fatto sotto la sua giurisdizione, l’Italia costruirà due strutture: una nel porto di Shengjin per le procedure di sbarco e identificazione, e l’altra, un Cpr, a Gjaader, su un’area di quasi otto ettari, dove i migranti verranno trattenuti in attesa dell’esame della domanda di asilo. Poi, se la richiesta verrà accolta, saranno trasferiti in Italia mentre, in caso di “bocciatura”, scatterà un provvedimento di espulsione. Agli “ospiti” sarà proibito uscire sia durante le procedure amministrative che alla loro conclusione. Prigionieri, totalmente tagliati fuori dal mondo esterno, come accade, appunto, nei nove Cpr in funzione nella penisola.

Flash bob in piazza Duomo a Milano il 22 dicembre 2019 contro i centri di permanenza e respingimento (foto Lapresse/Matteo Corner)

A Shengjin come a Gjaader dovrebbero finire i migranti maschi adulti, provenienti da paesi cosiddetti “sicuri”, soccorsi in acque internazionali da navi militari italiane. Lo smistamento, per separare i bambini, i minorenni e le donne dai naufraghi destinati all’Albania, dovrebbe avvenire direttamente in mare. Secondo i piani di Roma, dovrebbero essere ospitati e “gestiti” in questo modo 36 mila migranti l’anno: 3 mila in entrata e 3 mila in uscita al mese. A parte il concetto di “paese sicuro” manifestato dal Govero italiano, a dir poco “elastico” visto che si sta cercando di far passare per “sicura” persino la Libia, e sorvolando sulle evidenti difficoltà dello “smistamento” da effettuare in mezzo al Mediterraneo, il calcolo dei «36 mila migranti l’anno» che non graverebbero più sui flussi diretti in Italia, appare quanto meno aleatorio. Indagini più approfondite, che tengono conto delle lungaggini e della conseguente impossibilità pratica di un ricambio completo di 3 mila persone al mese nel Cpr di Gjaader, affermano che la più ottimistica delle previsioni si ferma, si e no, ad un migliaio ogni 30 giorni. Ovvero, poco più di 10 mila l’anno. Basti ricordare come si siano rivelati pressoché impossibili finora i rimpatri forzati a causa della mancanza di accordi bilaterali con gli stati di provenienza. Lo vedremo meglio nel merito domani (e non solo in Italia), nella seconda parte dell’articolo. — (1. continua) 

(*) L’autore dirige www.nuovidesaparecidos.net

Già responsabile delle edizioni regionali e vice capo redattore della cronaca di Roma de “Il Messaggero”, ha approfondito i problemi dell’immigrazione, occupandosi in particolare della tragedia dei profughi provenienti dal Sud del mondo ed è tra i fondatori del Comitato Nuovi Desaparecidos. Sui rifugiati e le politiche migratorie ha pubblicato “Fuga per la Vita”, Edizioni Simple (2018). Insieme a Marco Omizzolo ha scritto “Ciò che mi spezza il cuore. Eritrea: dalla grande speranza alla grande delusione”, un saggio inserito nella collettanea Migranti e Territori (Ediesse, 2015); e “Etnografia della nuova diaspora eritrea: origini, sviluppo e lotta contro la dittatura”, nella collettanea Migranti e Diritti (Edizioni Simple, gennaio 2017). È autore anche di tre libri legati alla persecuzione antisemita: due con la Giuntina (“Un Cammino lungo un anno, Gli ebrei salvati dal primo italiano Giusto tra le Nazioni” nel 2012; “Non ha dato prova di serio ravvedimento. Gli ebrei perseguitati nella provincia del duce”, nel 2014); il terzo con Emia Edizioni “Il Marchio di diversi” nel 2019.