A 21 anni si iscrive clandestinamente al Partito Comunista.Fonda e dirige la sezione di Sassari della Gioventù comunista. Da quel momento inizia la sua ascesa politica che lo ha portato a confrontarsi con le grandi figure della storia e della politica nazionale e internazionale  del suo tempo: Palmiro Togliatti, Stalin, Luigi Longo, Aldo Moro con il quale intraprese la possibilità di far entrare il Pci a pieno titolo nella coalizione di governo. Una possibilità, questa, che non fu mai portata a termine: la morte di Moro, dopo i tragici 54 giorni di prigionia per mano delle Brigate Rosse, segna anche la fine del “compromesso” storico. Il 7 giugno del 1984, mentre a Padova parla in un comizio per le imminenti elezioni europee, viene colto da un ictus, Sul palco ha un mancamento. Parla a fatica, ma porta lo stesso a termine il discorso. Quattro giorni dopo, l’11 giugno, muore all’ospedale di Padova


L’articolo di CARLO GIACOBBE

Un giovanissimo Enrico Berlinguer con Luciano Lama nei primi anni ‘50; sotto il titolo la celebre foto con Roberto Benigni

PER CENSO, ENRICO BERLINGUER sarebbe potuto appartenere alla “razza padrona”, per usare una tassonomia che richiama un celebre titolo di Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani. Ma per formazione, storia familiare e sue scelte, i padroni erano i suoi nemici naturali. Eppure, benché vicino spiritualmente alla classe dei “servi pastori”, il futuro leader dell’ultimo Partito comunista italiano si sarebbe potuto definire un bramino del Territorio Turritano, come un tempo era anche conosciuto l’odierno Sassarese. Nato nella seconda città della Sardegna il 25 maggio del 1922, un anno dopo il partito di cui sarebbe stato il leader più amato, Berlinguer era il primo figlio di Mario, un avvocato appartenente alla piccola nobiltà isolana e molto in vista a Sassari, antifascista e massone, e di Mariuccia Loriga, anche lei di origini aristocratiche. Le due famiglie, in un grumo di parentele e affinità difficile da districare, erano collegate ad altri maggiorenti di Sassari, per lo più dediti anticamente alla carriera militare e più recentemente, prima che alla politica, all’insegnamento universitario, soprattutto avvocati e medici. Cognomi che in tempi attuali avrebbero annoverato figure di primo piano della vita nazionale, come i presidenti della Repubblica Antonio Segni e Francesco Cossiga, oltre al fratello secondogenito di Enrico, Giovanni, e al cugino Luigi, entrambi più volte ministri tanto nella Prima quanto nella cosiddetta Seconda repubblica, e al cugino economista Sergio Siglienti.

Comizio di Enrico Berlinguer a Monterotondo, subito dopo la guerra

Enrico, dunque, era un predestinato. Di ingegno vivissimo e precoce, da ragazzo aveva mostrato una propensione per gli studi speculativi, avendo dichiarato che per vivere aspirava a fare il filosofo. Invece, caso forse unico in famiglia, la sorte avrebbe disposto che dopo gli esami di accesso alla scuola superiore non avrebbe sostenuto neanche la prova di maturità classica, sospesa nel 1940 per le vicende belliche, e iscrittosi alla Facoltà di Giurisprudenza con l’intenzione di approfondire la Filosofia del diritto avrebbe sostenuto un unico esame (per la cronaca 30/30 in Istituzioni di diritto romano) prima di abbandonare per sempre le aule universitarie, perché ormai troppo occupato nella politica attiva. A 21 anni, iscrittosi clandestinamente al Partito Comunista, fonda e dirige la sezione di Sassari della Gioventù comunista, che tiene le sue prime riunioni nella bottega di fornaio di uno degli iscritti.

Dopo l’armistizio e l’uscita dalla Sardegna dei tedeschi passati da alleati a nemici, siamo al principio del 1944, il pane tornerà nella biografia di Berlinguer, che con altri militanti comunisti, in un quartiere povero di Sassari, appoggia un’azione popolare volta a procurarsi pane per la popolazione affamata e priva di sostentamento, essendo nella confusione di quei mesi venuti meno anche i rifornimenti di farina dal continente. Alcune migliaia di persone danno l’assalto a forni e magazzini, intervengono i Reali carabinieri compiendo alcuni arresti, tra cui Berlinguer, nonostante che il Pc si fosse dissociato da quel metodo illegale. Enrico, gli schiavettoni ai polsi, viene arrestato e condotto prima in una caserma intitolata al suo antenato Gerolamo Berlinguer e poi trasferito nel carcere San Sebastiano, un lugubre e insalubre stabilimento penale nel centro di Sassari, rimasto in funzione sino al 2003. In condizioni quasi da medioevo, celle gelide e come acqua corrente essenzialmente quella che trasudando dai muri si porta via l’intonaco residuale, Enrico trascorre preventivamente quasi quattro mesi. Viene poi scarcerato, dopo che in istruttoria si comprova che nei disordini non ha avuto alcun ruolo. La sua colpa principale è stata, come comunista, di essere considerato a priori un sovversivo. Ricordando quei trascorsi da detenuto, dirà che era stata una esperienza formativa. 

Enrico Berlinguer in un convegno della Fgci nel 1952

Il giovane Enrico, da poco uscito dal carcere, acquisisce presto una notevole conoscenza delle persone e delle situazioni della politica attiva. La sua formazione è per molti versi da autodidatta, ma si avvale anche della cultura politica che gli viene dalla famiglia. Fondamentale, nel giugno di quello stesso 1944, un viaggio che il padre, nominato per pochi giorni Commissario aggiunto all’epurazione, compie a Salerno, dove ha sede il governo provvisorio in esilio, durante il quale si fa accompagnare dal primogenito, che presenta a Palmiro Togliatti. Da questo momento la sua carriera politica è tutta in ascesa. Nel gennaio del 1946, a 23 anni, entra a fare parte dei settanta componenti il Comitato centrale del Pci, essendone il membro più giovane. Quello stesso anno, come segretario del Fronte della gioventù (i neofascisti, evidentemente a corto di simboli loro, copieranno quel nome nel 1971, così come due anni prima avevano fondato il partito Ordine nuovo, mutuandolo dal nome dell’organo del movimento dei consigli di fabbrica, fondato nel 1919, tra gli altri, da Antonio Gramsci e da Togliatti), guida una missione di una quindicina di membri del partito in Unione sovietica e viene presentato a Stalin, avendo con lui un breve colloquio che, date le circostanze e i rispettivi ruoli, è di pura circostanza. Il dittatore, che si sa amava le soluzioni spicce, se avesse avuto sentore di ciò che quel giovane dirigente sarebbe diventato lo avrebbe probabilmente mandato a “purgarsi” in un gulag o direttamente davanti a un plotone di esecuzione.

Letizia Laurenti ed Enrico Berlinguer firmano l’atto del loro matrimonio

Come in un complesso gioco dell’oca, la carriera di Berlinguer progredisce ancora e da responsabile del movimento giovanile viene chiamato a far parte di un altro consesso ancora più ristretto, la Direzione del partito, che senza dubbio è il più strutturato tra quelli italiani. Contemporaneamente Berlinguer è anche segretario della Federazione mondiale della gioventù democratica, con sede a Budapest, dove sei anni dopo, nel 1956, sarebbe scoppiata la prima rivolta contro l’Urss di una nazione tra quelle che compongono i “satelliti” del gigante dell’Est europeo. Berlinguer mantiene in proposito un atteggiamento opaco e di basso profilo, in linea col partito, scosso tra la destalinizzazione e la necessità di mantenere una linea fedele a quella di Mosca, mentre in Ungheria è in atto la dura repressione da parte dell’Armata rossa. Quel periodo rappresenta l’unico ripiegamento nel tragitto politico, altrimenti già tracciato, di Enrico, che nel frattempo si è sposato con Letizia Laurenti, figlia di un funzionario del Senato e donna di proverbiale riservatezza. Dal matrimonio nasceranno quattro figli, Bianca Maria, giornalista in Rai, Maria Stella, sua collega presso Mediaset, Marco, ricercatore e politologo che vive a Barcellona e Maria Laura, esperta di moda e design. Togliatti, scontento del calo delle iscrizioni alla Fgci, il movimento dei giovani comunisti, toglie Berlinguer dal vertice della organizzazione giovanile e lo manda a Cagliari come vicesegretario regionale per la Sardegna, indubbiamente un passo indietro. Ma Enrico si rimette al lavoro e dopo pochi mesi, conseguiti notevoli successi, è richiamato a Roma, pienamente “riabilitato”. 

Nel volgere di qualche anno assume la guida dell’Ufficio di segreteria e delle Relazioni estere. Nel 1964 muore a Jalta Togliatti. Al Migliore, come è stato soprannominato, succede come segretario del partito Luigi Longo. Nel 1969 Berlinguer, nel frattempo eletto deputato con 150.000 preferenze nel Lazio, viene affiancato nella Segreteria a Longo, diventato parzialmente invalido, superando Giorgio Napolitano che era l’altro candidato per il delicato compito. Nello stesso anno, insieme a una delegazione del Pci di cui fanno parte esponenti di spicco come Armando Cossutta e Paolo Bufalini, Berlinguer fa quello che nelle parole del suo biografo Giuseppe Fiori sarebbe stato ricordato come “il più duro discorso mai pronunciato a Mosca da un leader straniero”. La critica principale che il giovane vicesegretario muove alla nomenklatura sovietica, capeggiata da Leonid Brezhnev, è che si voglia imporre un unico modello di società socialista valida per tutte le situazioni, mentre ogni contesto fa storia a sé.

Berlinguer, Ingrao, Paletta e Occhetto al XIII congresso del Pci

Passano ancora quasi due anni prima che nel XIII Congresso del partito oltre mille delegati, in rappresentanza di un milione e mezzo di iscritti, lo eleggano a grande maggioranza Segretario. Nelle elezioni politiche, il suo posto di deputato è confermato con 200.000 preferenze. L’anno seguente, la dirigenza di Mosca coglie l’occasione per fargli pagare – possibilmente con la vita – il prezzo per le parole “oltraggiose” da lui dirette tre anni prima verso la dirigenza del Pcus, che ancora si considera depositaria dell’ideologia comunista planetaria. In un viaggio in Bulgaria per colloqui col capo dello Stato Todor Zivkov, particolarmente servile nei confronti di Mosca, visto il clima tutt’altro che sereno e soprattutto improduttivo dei colloqui, l’esponente italiano decide di abbreviare la missione e rientrare a Roma. Sulla strada che da Sofia va verso l’aeroporto, un pesante camion militare investe a forte velocità la carovana delle auto di stato, centrando in pieno proprio quella su cui viaggia il Segretario del Pci. Nell’urto perde la vita un povero interprete bulgaro, mentre rimangono gravemente feriti due dirigenti del partito comunista di Sofia e, in modo serio ma non grave, lo stesso Enrico. Oggi gli storici concordano nell’attribuire il fatto alla precisa volontà dell’Urss (e forse di qualche ramo più filosovietico del Pci) di sbarazzarsi del leader sardo.

La foto del compromesso storico con la stretta di mano tra Berlinguer e Aldo Moro

Riavutosi dall’incidente, Berlinguer pubblica su “Rinascita”, la rivista del partito, tre articoli da lui scritti durante la convalescenza. Riguardano il “golpe” fascista di Augusto Pinochet in Cile, vita democratica e reazione e gli schieramenti politici e possibili alleanze. In questi documenti è contenuto forse il contributo più alto e indipendente da Mosca da lui dato, l’idea di “eurocomunismo”, anche se tale termine lo impiegherà soltanto dal 1976. Una concezione che era già in nuce nella sua mente e che sarà raccolta anche da altri leader comunisti europei, in particolare il francese Georges Marchais e, in seguito, anche lo spagnolo Santiago Carrillo. Qualcuno, in tono forse di irrisione ma che nei fatti si rivela utile a promuovere la svolta di autonomia voluta dal Segretario, parlerà di “comunismo dal volto umano”. Una fondamentale mossa politica, divisata dall’ateo Berlinguer assieme al cattolico Aldo Moro, soprattutto oggi ritenuto l’unico grande statista della Democrazia cristiana degno di raccogliere l’eredità di Alcide De Gasperi, è quella del “compromesso storico”.

Enrico Berlinguer negli anni Settanta, nel pieno della sua popolarità

Nel 1977 Berlinguer, dando prova di notevole coraggio e confermando il suo naturale pragmatismo, finge di dimenticare quell’“incidente” e torna a Mosca, per partecipare alle trionfali manifestazioni celebrative dei 60 anni della Rivoluzione di ottobre. Parlando nuovamente di fronte alla massima dirigenza sovietica, con a capo Brezhnev, e di fronte alle delegazioni dei 123 paesi invitati, in rappresentanza di Stati, dei partiti comunisti e socialisti, delle organizzazioni sindacati e dei movimenti di lotta di tutto il mondo, pur ribadendo l’impegno per l’affermazione del comunismo e delle istanze di giustizia sociale, dichiara che fra gli ideali di democrazia non si può né deve escludere la ricerca di “una intesa con altre forze di ispirazione socialista e cristiana in Italia e in Europa occidentale”, per garantire “tutte le libertà personali e collettive, civili e religiose, il carattere non ideologico dello Stato, la possibilità dell’esistenza di diversi partiti, il pluralismo della vita sociale, culturale, ideale”. Parole ispirate, certo, ma pensando al consesso a cui sono dirette anche funambolismi verbali, che probabilmente mirano ad essere ascoltate più a casa sua che nella Piazza rossa e nei falansteri sovietici. Parole, peraltro, che non sono inedite per Moro, col quale Berlinguer sta rafforzando sempre più un sodalizio umano oltre che politico.

Tale intesa si conferma all’inizio del 1978, quando il presidente della Dc dichiara che si sarebbe fatto convinto mallevadore dell’ingresso del Pci a pieno titolo nella coalizione di governo. È il 16 febbraio. Esattamente un mese dopo, a Via Fani, i cadaveri dei cinque uomini di scorta al leader democristiano segnano l’inizio di un incubo che ha l’epilogo con il sesto brutale omicidio compiuto dalle Brigate rosse il 9 maggio. In quei 54 giorni, come si sa, prevale la linea della fermezza, per la quale oltre alle correnti maggioritarie della stessa Dc si schiera anche il vertice del Pci, Berlinguer compreso. In ciò alcuni hanno voluto leggere il cinismo del vecchio comunista insensibile alla “mozione degli affetti”. Altri però ritengono che per il Pci l’intransigenza sia un dovere irrinunciabile anche contro il proprio tornaconto politico, giacché è evidente a tutti che la morte di Moro segna anche la fine del “compromesso” storico (termine che, aveva spiegato Berlinguer, è da intendersi come “impegno” e non come “accomodamento”). Il rapimento e l’omicidio di Moro determinano un clima di instabilità politica potenzialmente distruttivo, agli occhi di Berlinguer, per la democrazia italiana e cedimenti non sono possibili. Un clima che tutt’oggi non è stato escluso abbia avuto uno o più “burattinai” che, paventando l’alleanza Dc-Pci, abbiano eterodiretto gli esecutori materiali. 

L’abbraccio tra Enrico Berlinguer e Yasser Arafat capo dell’Olp

Dopo la tragedia di Moro, Berlinguer resta in carica, ottenendo sempre grandi affermazioni personali alle urne, con preferenze tra 200 e 250 mila. Il Pci, al quale ha consacrato tutta la sua energia e intelligenza, paga però un alto costo in termini di consenso. Alle nuove consultazioni elettorali è una emorragia di voti; anche sull’onda emotiva per la fine di Moro e del sodalizio tra i due maggiori partiti italiani (che alcuni, quasi con miserabile dileggio, seguitano a definire “cattocomunismo”) il clima politico è mutato. Finiscono di deteriorarsi anche i rapporti del Pci con Mosca, che nel 1980 invade l’Afghanistan, attirandosi da Berlinguer l’accusa di “potenza imperialista alla stregua degli Stati Uniti”. Dopo seguiranno i fatti di Polonia, con la crisi innescata dalla repressione a intermittenza del movimento dissidente cattolico Solidarnosc. È anche il decennio della grande crisi della Fiat, con la “marcia dei 40.000” quadri in opposizione al sindacato dei metalmeccanici, punto di forza storico dei comunisti.

Dopo il disastroso terremoto in Irpinia di quello stesso 1980, Berlinguer, che nella Dc non ha più interlocutori con i quali riprendere le fila del progetto avviato con Moro, vede con preoccupazione che si va rafforzando, per voti e soprattutto per ruolo, il Partito socialista di Bettino Craxi. Abbandonata definitivamente l’idea di “compromesso storico”, cerca un rilancio da sinistra, sganciato però dal centralismo sovietico. Poi lascia cadere anche la “solidarietà nazionale” seguita al sisma, a causa del dilagare del malcostume e delle malversazioni dei partiti, soprattutto Dc, socialista e socialdemocratico, “diventati macchine di potere e di clientela” afferma in una celebre intervista data su “Repubblica” a Eugenio Scalfari; partiti “che hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni a partire dal governo” oltre a “banche, aziende pubbliche, istituti culturali, ospedali, università, Rai Tv, alcuni grandi giornali”, spiega. 

La prima pagine dell’edizione speciale dell’Unità per i funerali di Berlinguer

Il carisma e la visione dell’uomo sono tali che nonostante la crisi economica, la definitiva rottura con l’Urss (che attacca frontalmente lo storico partito di Gramsci in un violento articolo sulla “Pravda”) e l’isolamento del Pci rispetto agli altri partiti italiani, Berlinguer nel 1983 è confermato segretario ed eletto per la quarta volta a Roma col solito fiume di suffragi. Ha fatto tutto quello che forze umane consentivano, contraddicendo il suo fisico gracile e minuto, che lo aveva reso simile anche fisicamente al suo amico Moro. Ciò che dice e ripete sulla “questione morale” e sulla corruzione del sistema sembra avere valore profetico, in anticipazione di “mani pulite”, che cambierà il volto del Paese. Non ha però la magra soddisfazione di vedere in atto le vicende da lui prefigurate. Il 7 giugno del 1984, mentre a Padova parla in un comizio per le imminenti elezioni europee, viene colto da un ictus. Sul palco ha un mancamento. Parla a fatica, ma porta lo stesso a termine il discorso, mentre la folla, che ha capito, gli chiede di smettere. Nella stanza di albergo, dove si è subito ritirato, ha una seconda crisi nel sonno, entrando in coma. Al mattino lo portano in ospedale, dove l’11 giugno muore. A Padova si trova anche il Presidente Sandro Pertini, l’unico socialista che gli fosse amico, che si impone per portare la salma a Roma, dove gli vengono tributati funerali ai quali partecipano un milione di persone. 

In un esercizio di ucronia, ispirato da certi episodi di oggi, se la malattia non lo avesse colpito e Berlinguer fosse arrivato a vedere la fine dell’Urss, è possibile che un’altra mano come quella che guidava il camion in Bulgaria, solo un po’ più efficiente, magari lo avrebbe sfiorato con la punta di un ombrello, anticipando il corso ineluttabile del destino. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Documentarsi, verificare, scrivere richiede studio e impegno
Se hai apprezzato questa lettura aiutaci a restare liberi

Dona ora su Pay Pal

Mi divido tra Roma, dove sono nato, e Lisbona, dove potrei essere nato in una vita precedente. Ho molte passioni, non tutte confessabili e alcune non più praticabili, ma che mai mi sentirei di ripudiare. In cima a tutte c'è la musica, senza la quale per me l'esistenza non avrebbe senso. Non suono alcuno strumento, ma ho studiato canto classico (da basso) anche se ormai mi dedico (pandemia permettendo) al pop tradizionale, nei repertori romano, napoletano e siciliano, e al Fado, nella variante solo maschile specifica di Coimbra. Al centro dei miei interessi ci sono anche la letteratura e le lingue. Ne conosco bene cinque e ho vari gradi di dimestichezza con altrettante, tra vive, morte e, temo, moribonde. Ho praticato vari generi di scrittura; soprattutto, ma non solo, saggi e traduzioni dall'inglese e dal portoghese. Per cinque anni ho insegnato letteratura e cultura dei Paesi lusofoni alla Sapienza, mia antica alma mater. Prima di lasciare, con largo anticipo, l'Ansa e il giornalismo attivo, da caporedattore, ho vissuto come corrispondente e inviato in Egitto, Stati Uniti, Canada, Portogallo, Israele e Messico. Ho appena pubblicato “100 sonétti ‘n po’ scorètti", una raccolta di versi romaneschi. Sono sposato da 40 anni con Claudia e insieme abbiamo generato Viola e Giulio