Bronzetto “La madre dell’ucciso” da Urzulei; sotto il titolo, Prehistoric Man, Iron Age Blacksmiths (Science Foto Library)

Ma l’Età del Ferro è stata posticipata rispetto al suo “vero” inizio? Dalla Sardegna, terra custode di grandi segreti dell’evoluzione dell’umanità, ci sono dei reperti che autorizzano una rivoluzionaria conclusione: l’Età del Ferro è cominciata prima, molto prima, secondo i sostenitori – sempre più numerosi – di questa teoria. Quanto prima? Millenni. Non tutti ne sono convinti, anzi c’è chi difende la datazione finora condivisa. Ci vorrebbe una prova del fuoco. Eccola


◆ L’inchiesta di MAURIZIO MENICUCCI

I prenuragici, la magnetite la lavoravano sul posto. Carmine Piras sostiene di aver trovato anche il cono della fornace, poco lontano dalla spiaggia. «È ancora intatto. Le pareti sono annerite, si notano le condotte di ventilazione forzata che servivano ad aumentare la temperatura, c’è del basalto fuso, e questo indica che sapevano andare oltre i 1.700 gradi, e che il  ferro riuscivano a temprarlo. Se proviamo a ritornare nelle domus de janas più complesse e le esaminiamo con occhi nuovi, vedremo chiari sulla roccia i segni di incisioni che possono essere state fatte soltanto con strumenti di ferro». Ma solo qui in Sardegna? «L’isola è piena di toponimi dove ricorre la radice ‘ferro’, ma può essere successo dovunque la geologia offriva sedimenti ferrosi in grande concentrazione». Alla richiesta di altre prove che rendano più solida la sua tesi, Piras risponde che l’onere «spetta agli altri, quelli che sacrificano l’evidenza alla teoria». Sa bene qual è la prima e più banale obiezione: se i nuragici avessero impiegato il ferro, ebbene, oggi lo avremmo ritrovato. Invece i reperti consistono quasi solo di armi in rame e soprattutto bronzo… Qui, Carmine mi blocca: «In pochi secoli il ferro arrugginisce, si scioglie nell’acqua e sparisce. Il bronzo, no. E il fatto che nelle tombe se ne trovi tanto suggerisce che forse lo usavano anche per dotare il defunto, a scopo simbolico, di strumenti analoghi a quelli in ferro, ma durevoli». 

Giorgio Valdés, profondo conoscitore della Sardegna arcaica, è tra quelli che condividono alla virgola le ragioni di Piras. Anche perché è al corrente del suo piccolo segreto industriale: «Per temprare il ferro e ottenere l’acciaio occorre aggiungere carbonio: Carmine ha scoperto che può farlo mettendo semplicemente nel crogiolo polvere di corno e di cuoio». Dall’archeologia accademica, l’idea di Piras & C viene accolta per lo più con tangibile scetticismo, e qualche diplomatico “interessante, si vedrà”. Anche noi, lo confessiamo, siamo un po’ incerti. Ma siccome il compito del giornalista è trovare chi possa dubitare anche per lui, cerchiamo qualcuno che disputi con lo scultore sardo sul suo stesso piano, cioè di materiali e di temperature. Lo troviamo all’Ateneo di Bari. È Claudio Giardino, uno dei massimi esperti di storia dei metalli, e contesta radicalmente l’idea di anticipare l’Età del Ferro, o almeno, del ferro utile. «Anche se, al principio del secondo millennio, qualcuno probabilmente cominciava già a ottenerlo, magari come residuo finale della fusione di matrici di rame, stagno e zinco, si trattava di ferraccio, meno resistente e robusto del bronzo, tant’è che anche nei primi secoli dell’età del Ferro, per fabbricare armi, gli venne a lungo preferito il bronzo. Senza contare che il bronzo può essere colato in stampi, mentre il ferro deve essere faticosamente martellato (malleabile viene proprio da malleus, martello, ndr) per dargli la forma voluta». 

I Giganti di Mont’e Prama, Museo archeologico nazionale di Cagliari

«No, il ferro è successivo al bronzo − riparte Giardino −, lo dicono tutte le evidenze archeologiche. Del resto, se l’assenza di ferro preistorico fosse dovuta alla ruggine, perché nei corredi funerari ritroviamo ferri vecchi di due o tremila anni?». Potrebbe dipendere dalla poca umidità del contesto ambientale? «Non credo». Quanto alla possibilità che i protosardi sapessero davvero temprarlo fino all’acciaio, Giardino non dà molto peso alla ricetta ‘cuoio e corno’ di Piras per aggiungere carbonio alla massa fusa. «La padronanza del procedimento viene raggiunta molto più tardi, ben dentro il primo millennio, e non da tutti. Uno dei punti di forza delle legioni romane contro i Celti era proprio il fatto che le loro armi erano in ferro temperato. Quelle degli avversari, fuse in ferro ordinario, si deformavano e andavano continuamente aggiustate e riaffilate. Altro esempio: gli obelischi egizi sono in diorite, una pietra durissima, e gli storici dell’epoca raccontano che veniva estratta dalle cave di Assuan e lavorata solo con arnesi in pietra». 

Per il ferro ricavato dalla magnetite, il problema è sempre la scarsa qualità. Giardino rievoca un precedente autarchico del secolo scorso: «Mussolini fu persuaso a sfruttare le sabbie nere di Ladispoli, ricche di questo minerale, per armare le ambizioni coloniali dell’Italia, ma dovette quasi subito abbandonare il progetto per via dei costi e della scarsa resa». A risollevare le quotazioni della teoria del Ferro prima dell’Età del Ferro arriva, però, Gaetano Ranieri, già vicerettore del Politecnico di Cagliari. Pioniere delle indagini elettromagnetiche, quelle che leggono il sottosuolo e indicano dove e che cosa scavare, Ranieri getta nella mischia tutto il peso della sua fama di scopritore del celeberrimo sito di Mont’e Prama e, soprattutto, di testimone diretto delle metallurgie ancestrali resuscitate dal vulcanico Piras. «È vero, alimentando la sua ‘fucina prenuragica’ con essenze resinose, raccolte lì attorno, Carmine Piras ha generato tanto calore da trasformare sotto i miei occhi la sabbia nera in ferro temprato».

Ranieri ha un altro asso da calare. «Lo sa perché il ferro meteorico è inattaccabile dalla ruggine? Contiene nickel, che lo rende inossidabile. Bene, la magnetite sarda contiene naturalmente un elemento che funziona come il nickel: è il titanio. Ecco perché, quand’anche fosse ottenuto con sistemi primitivi e calore insufficiente a temprarlo, il ferro sardo è di qualità superiore. Agghiummai (giammai, ndr) un ferraccio!». Nella querelle tra professionisti, Vittorio Corbani rivendica il diritto alla sintesi e al compromesso, in nome dei «semplici appassionati di archeologia, liberi da pregiudizi e obblighi accademici». «Che i prenuragici – osserva – e con loro, o addirittura prima, altre antiche civiltà, realizzassero il ferro, partendo dalla sabbia di magnetite, mi sembra poggi su troppi indizi per essere liquidato come fantasia. Sarebbe più utile, allora, riflettere su che cosa volevano ottenere e per quali scopi: forse il bronzo poteva bastare per la routine, ma quando c’era bisogno di strumenti per lavorare la pietra, è probabile che del ferro temprato, anche se più impegnativo da produrre, non potessero proprio fare a meno». 

Pendente (lanceolato) Barumini, ca XII a.C – ca VIII a. C verosimilmente riproducente una spada con lama lunga e stretta, appiattita a martellatura/ a sezione lenticolare/ breve spalla rettilinea/codolo a sezione ellittica ripiegato in avanti a formare il gancio di sospensione; bronzo/ fusione a cera persa. Misure, lunghezza: 3,8 cm, spessore: 1,5 cm; peso: 2 g; larghezza: 0,5 cm (Catalogo generale dei Beni Culturali)

Secondo Giuseppina Tanda, universitaria e decana degli archeologi sardi, ne facevano a meno benissimo: «Nella necropoli di Anghelu Ruiu, vicino ad Alghero, che risale al quarto millennio dunque al Neolitico, abbiamo trovato resti che con ogni probabilità sono quelli di un artista dell’epoca, perché il suo corredo comprende strumenti di scavo. E sono in pietra». E allora, per dar, dopo la botte, il classico colpo al cerchio, ovviamente in ferro, chiudiamo con le parole di Giacomo Paglietti, direttore scientifico del museo archeologico di Genna Maria di Villanova Forru. Per lui la chiave di volta è la tecnologia del calore: «Una volta dimostrato che si potessero raggiungere temperature elevate per scopi diversi, nulla vieta di immaginare che le avessero trasferite ad altre lavorazioni. E noi sappiamo che i sardi del sesto millennio, Neolitico Medio, cuocevano già le loro ceramiche a 900 gradi». Ancora poco per fondere il ferro, ma abbastanza per riscaldare il dibattito. (2. fine; la prima parte è stata pubblicata qui mercoledì 20 dicembre 2023) © RIPRODUZIONE RISERVATA

Inviato speciale per il telegiornale scientifico e tecnologico Leonardo e per i programmi Ambiente Italia e Mediterraneo della Rai, ha firmato reportage in Italia e all’estero, e ha lavorato per La Stampa, L’Europeo, Panorama, spaziando tra tecnologia, ambiente, scienze naturali, medicina, archeologia e paleoantropologia. Appassionato di mare, ha realizzato numerosi servizi subacquei per la Rai e per altre testate.