La pesca a strascico è limitata nell’Unione europea, ma non abbastanza da impedire che sia compromesso il patrimonio di biodiversità del Mediterraneo. Eppure basterebbero alcune misure più incisive di quelle attuali per evitare che in un prossimo futuro vada perduto non solo gran parte del patrimonio naturale del nostro mare, ma anche l’economia del settore della pesca. Perché, al contrario da quanto sostenuto da tanta cattiva politica e da difese corporative ma miopi delle associazioni dei pescatori, una pesca sostenibile ripopolerebbe il mare aumentando così le risorse ittiche disponibili. Resterebbe sempre la minaccia della pesca illegale, che preda le risorse destinate alla rigenerazione e distrugge gli habitat, ma un approccio “ecosistemico” permetterebbe di riconciliare economia ed ecologia. Dando un futuro al nostro amico mare. E ai pescatori, che altrimenti rischiano di estinguersi anche loro


◆ L’analisi di MAURIZIO MENICUCCI

Meglio un uovo oggi che una gallina domani, predicavano  presunti saggi quando, proprio ieri, e molti ancora oggi, eravamo convinti che le galline e le uova fossero variabili indipendenti e gli adagi fossero giusti per definizione. Applicato al pianeta che abitiamo, è senza ombra di dubbio il proverbio più smentito della Storia, come dicono  le troppe, sempre più ingovernabili emergenze ambientali. Non minore, tra questi disastri, anche se meno familiare al grande pubblico preso all’amo dalle false campagne sul ‘filetto di mare sostenibile’, c’è la distruzione portata dalle reti a strascico, proprio quel tipo di pesca che è più vicino al concetto di spremere subito tutto il possibile dal mare, anche a costo di renderci impossibile il futuro.

Quattro anni fa, l’Unione Europea aveva permesso in via provvisoria alle marinerie di alcuni paesi nordatlantici di stanare e stordire con le scariche elettriche le specie ittiche che vivono affondate nel limo. Parafrasando Tacito: “Fecero il deserto e lo chiamarono pesca”. Fatta passare come ‘sperimentazione scientifica’, l’autorizzazione era talmente pretestuosa, che gli ambientalisti e le associazioni per la piccola pesca sono riusciti, nel 2021, a farla revocare. Alla fine, sugli interessi delle grandi marinerie e delle loro lobby, attivissime a Bruxelles, ha prevalso l’obiezione che sia assurdo, ammessa la buona fede, rendere ancora più letali queste trappole mobili, già dotate di motori potentissimi, cavi d’acciaio, ruote e grevi zavorre per scuoiare i fondali perfino e che per questo, appunto, i bottini dei pescherecci sono sempre più magri.

Altrettanto magra, però, può dirsi la vittoria dell’ambiente, perché se già il buonsenso suggerisce la pericolosità di queste reti, oltretutto così poco selettive da costringere a buttare via gran parte delle catture perché invendibili, gli studi sul campo confermano che lo strascico, anche senza scosse elettriche, sarebbero da abolire senza perdere altro tempo. E non solo per la quantità di organismi prelevati, ma per tutta una serie di effetti indotti nella colonna d’acqua al di sopra dei solchi che incidono per chilometri il fondo marino. Alcune campagne internazionali, condotte negli ultimi vent’anni nell’Egeo e sulla ‘Scarpata Catalana’, nel Mediterraneo Occidentale, e coordinate da Antonio Pusceddu, dell’Università di Cagliari, e Roberto Danovaro, dell’Università Politecnica delle Marche, indicano come particolarmente insidioso il sollevamento dei sedimenti. «A bassa profondità – riassume Pusceddu – l’azione di aratura dello strascicante sconvolge la chimica del fondale e dell’acqua e influisce sull’assorbimento della luce, danneggiando a molti livelli, l’intera piramide alimentare, dai più piccoli organismi ai grandi pelagici». 

Fino a poco tempo fa, i pescatori, sordi a ogni logica che li sollecitasse a pensare al mare come a una risorsa da amministrare e non da spremere, cercavano di aumentare a ogni costo i volumi del pescato. Ora qualcosa sta cambiando. Specialmente, i piccoli pescatori locali, più legati al ‘territorio’, cominciano a rendersi conto che prendere meno oggi permetterà di prendere anche domani. Pescare meno per pescare tutti, direbbe Gianni Usai, ‘operaio in mare aperto’ come lo definì Loris Campetti in un libro-intervista, che a partire dal 1980, dopo aver animato le proteste delle tute blu alla Fiat di Torino, se ne ritornò sulla costa del Sinis a sindacalizzare i pescatori. Per prima cosa – lo racconta Sabina Guzzanti nel film ‘Le Ragioni dell’Aragosta’ – insegnò loro a ributtare in mare i crostacei sotto taglia per poterli ripescare belli grandi l’anno dopo. Non durò molto, perché dopo un po’ la notizia che il fondale dove avvenivano i rilasci brulicava di grandi aragoste attirò barche di altri comuni e la riserva, continuamente violata, ritornò a impoverirsi.

Ma la pesca è ancora oggi una guerra, dell’uomo con l’uomo e dell’uomo col mare. E tra il comprendere e il cambiare comportamenti, c’è di mezzo un altro mare, quello delle abitudini, specie quando si saldano con gli interessi industriali delle grandi flottiglie. Così, nonostante gli allarmi, si va avanti come niente fosse a spazzare le ultime uova che sarebbero diventate galline, mentre la Scienza ricorda che, soprattutto nel Mediterraneo, bacino piccolo e chiuso, di notevole biodiversità, ma scarse quantità, l’overfishing ha già superato di 4 o 5 volte la capacità riproduttiva di numerose specie. In altre parole, se volessimo tentare di salvare il pesce e la pesca, dovremmo prelevarne un quarto, o un quinto, di quanto facciamo ora. 

Per Domitilla Senni, portavoce di MedReact, una ong focalizzata sulle iniziative in difesa del Mediterraneo, il quadro è sconsolante: «Non ce ne siamo accorti, ma, dalle nostre acque, secondo l’Uicn, sono già sparite tredici specie di squali, l’anguilla è sulla lista rossa, ridotta di oltre il 90 per cento rispetto al secolo scorso, e le sempre più numerose Zone di Tutela Biologica, soggette a continue incursioni da parte dei pescherecci, esistono solo sulla carta». Tra i rimedi tentati con notevole affanno, c’è il ‘divieto di pesca ripensato’. Vuol dire, non più da imporre, come in passato, ma da concordare con i pescatori. E non è a caso, ma in alcuni tratti di mare, che gli studiosi hanno da tempo indicato all’Unione Europea come Fra, o ‘Fisherys Resctricted Area’, vere e proprie nursery, dove determinati pesci, ancora poco disturbati dalla pesca, si concentrano per riprodursi.

Della decina di ‘Fisherys Resctricted Area’ individuate nel Mediterraneo, una, la Fossa di Pomo, tra Croazia e Abruzzi, è stata istituita nel 2017, grazie alla paziente mediazione degli attivisti di MedReact. Dopo tre anni di ’prova’, il clamoroso aumento delle prede tirate su intorno alla Fossa – soprattutto, naselli e scampi – e delle loro taglie, anche per l’arrivo di pesci predatori, ha convinto i pescatori di entrambe le sponde. Dapprima ostili all’iniziativa, si sono espressi per la sua definitiva riconferma. Sulla scorta del successo, una seconda nursery è in ‘via di concertazione’ nel Canale di Otranto, e una terza sta per essere proposta da MedReact nel cosiddetto Mammellone, al largo della Tunisia, contesissima cornucopia di gamberi e gamberoni.

Piccole vittorie, ma è meglio non fermarsi a festeggiare, ricorda Domitilla, perché il Mare Nostrum agonizza e la politica continua a speculare intorno al suo capezzale«Per chi è determinato a raschiare il fondo, ogni scusa è buona. Il governo italiano, ad esempio, ha appena chiesto alle Comunità Europea di autorizzare, in  deroga al divieto, lo strascico entro le tre miglia dalla costa per contrastare la diffusione del granchio Blu. Noi abbiamo portato la voce della comunità scientifica: esistono strumenti non distruttivi e molto più selettivi, come le nasse, per raggiungere lo stesso scopo». 

Ma il mare non è solo vasto: è soprattutto profondo, e a partire dai 200 metri, anche se ne abbiamo tracciato mappe geografiche piuttosto precise, lo conosciamo poco. «Meno di Marte», come ama dire, e poi dimostrare, Roberto Danovaro, nelle sue conferenze. Il paragone sembra esagerato, ma non è. Se si pensa alle condizioni di temperatura, di pressione e di luce, siamo davvero in un altro mondo, grande il doppio di quello su cui poggiamo i piedi, che ora stiamo cercando di decifrare con una nuova tecnica di censimento della vita. È quella del Dna ambientale, che permette di risalire alle specie presenti isolando e amplificando il materiale genetico dei loro residui nelle matrici ambientali. Il Dna raccolto sui fondali oceanici dimostra che gli abissi non sono affatto sterili come il buio e le condizioni estreme facevano supporre. Ne parleremo domani. — (1. continua) © RIPRODUZIONE RISERVATA

Inviato speciale per il telegiornale scientifico e tecnologico Leonardo e per i programmi Ambiente Italia e Mediterraneo della Rai, ha firmato reportage in Italia e all’estero, e ha lavorato per La Stampa, L’Europeo, Panorama, spaziando tra tecnologia, ambiente, scienze naturali, medicina, archeologia e paleoantropologia. Appassionato di mare, ha realizzato numerosi servizi subacquei per la Rai e per altre testate.