Le rivolte di piazza animano l’Iran dal 16 settembre, dopo l’uccisione di Masha Amini la ragazza del Kurdistan Iraniano arrestata perché non portava correttamente il velo. La sua morte mentre era sotto custodia della polizia morale ha innescato proteste senza precedenti in varie città del Paese. “Donne, vita e libertà” è lo slogan he hanno lanciato le ragazze giovanissime assieme ai loro compagni ed amici. È richiesta di giustizia e di equilibrio, in termini di affermazione e difesa della propria identità, ma è anche richiesta di un futuro in cui questa identità possa essere espressa senza coercizioni insensate e ingiuste. Di fronte a un movimento di piazza che è anche privo di leadership, la Repubblica Islamica ha davanti due soluzioni: non arrestare nessuno in particolare o — come ha già fatto in parte — arrestare e condannare tutti, con conseguenze che saranno più gravi di ogni sanzione, anche senza bisogno di ingerenze esterne. Manifestazioni oggi in varie città italiane a fianco delle donne iraniane


L’analisi di LAURA SILVIA BATTAGLIA

LE RAGIONI SONO molteplici, partendo dalle rivendicazioni “etniche” della popolazione curdo-iraniana, fino ad arrivare agli effetti della situazione economica del Paese, messa a dura prova dalle sanzioni imposte dalla comunità internazionale per il mancato accordo sul nucleare. Ma le rivolte di piazza che animano l’Iran dal 16 settembre scorso, a seguito dell’uccisione di Masha Amini — la ragazza del Kurdistan iraniano arrestata perché non portava correttamente il velo islamico e ridotta in coma mentre era sotto custodia della polizia morale di Teheran — non hanno precedenti. “Donne, vita, libertà” è lo slogan inedito che queste giovanissime e i loro compagni e amici hanno lanciato rispetto alle manifestazioni del passato, numerose e usuali a partire dal 1999. Se le precedenti partivano sempre da motivazioni politico-economiche (brogli elettorali, caro benzina, trasparenza sul caso del crollo dell’aereo civile ucraino con 197 passeggeri a bordo, dopo l’uccisione in Iraq del generale delle brigate al-Quds, Qassem Soleimani, target dei droni americani), questa volta la natura delle proteste è profonda, diffusa, costante. 

Chi manifesta non ha paura perché ritiene che vivere sotto il regime degli Ayatollah «non è più vita», nell’epoca attuale in cui, assai più che in passato, dopo il record negativo di affluenza al voto per le presidenziali del 2021, i falchi conservatori hanno occupato tutte le posizioni di potere disponibili. È richiesta di giustizia e di equilibrio, in termini di affermazione e difesa della propria identità, ma è anche richiesta di un futuro in cui questa identità possa essere espressa senza coercizioni insensate e ingiuste. Per Ali Kamenei, l’anziana Guida Suprema del clero sciita, le proteste di piazza sono sommosse organizzate da Usa e Israele, con il sostegno di “Stati vassalli” come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Paesi che hanno soffiato sul fuoco e continuano a farlo, sostiene Khamenei, «utilizzando la povera Masha Amini come pretesto» così come in passato, o in futuro, ne hanno trovati e ne troveranno degli altri per ostacolare la Repubblica Islamica d’Iran.

Questa lettura dei fatti di piazza e di quanto sta accadendo nel Paese, in linea con le tesi complottiste che spesso animano la stampa e l’opinione pubblica locali, ha un minimo fondo di verità, nella misura in cui c’è stato in passato tutto l’interesse, da parte della Cia, durante la rivoluzione di Mossadeh negli anni Cinquanta, di sabotare quel processo democratico per motivi di approvvigionamento energetico. Ma, per quanto l’interesse a rovesciare la Repubblica Islamica ci sia ancora, e anche l’opportunità e i mezzi per farlo, non siamo più negli anni Cinquanta: la Repubblica Islamica ha almeno cinquanta anni di vita, è solida e stabile, al punto che fatica a essere messa al tappeto anche dalle sanzioni inflitte a Teheran dalla comunità internazionale, e non è così facile “sabotarla” con l’azione degli agenti esterni. 

Queste considerazioni di Khamenei, condivise negli ambienti politici conservatori, e accettate anche dai più convinti nazionalisti iraniani, non necessariamente troppo adulti, però, non fanno i conti con il mondo che cambia, con le nuove generazioni del Paese native digitali ed esperte nell’uso del web, con i rigurgiti del Movimento Verde pre-2011, con il post-Covid, e con una rabbia che supera le opportunità del quieto vivere, oltre che con cinquant’anni di governi della Repubblica, sufficienti a più generazioni per rendersi conto di cosa funziona peggio in un sistema che difende sì l’interesse nazionale, ma chiede troppo ai propri cittadini. Indubbiamente chiede troppo soprattutto alle donne, le più determinate in queste rivolte di piazza, le più coraggiose. 

Vittime come Masha Amini, come Iman Mohammadi, e come molte altre, sono state e sono ancora protagoniste, e lo sono a qualsiasi costo che è quello più alto e ultimo: la vita. Non a caso, chi protesta viene represso dalla polizia morale e religiosa, il cui ruolo in Iran è diventato ancora più oppressivo dal 2010 in poi, con una stretta ossessiva sulla legge dell’obbligatorietà del velo, usata come pretesto per gli arresti e come deterrente sociale alle rivolte. E pensare che, per limitarci solo a questo aspetto, anche alcune apprezzate teologhe conservatrici iraniane avevano sconsigliato gli esecutivi di imporre la stretta definitiva, perché, islamicamente, «non c’è costrizione della religione» e meno ancora nell’imposizione della copertura del capo per legge dello Stato nell’unico Paese islamico che la prescrive nero su bianco dal 1983. Ma essere più realisti del re ha questo effetto e, adesso, di fronte a un movimento di piazza che è anche privo di leadership, la Repubblica Islamica ha davanti due soluzioni: non arrestare nessuno in particolare o — come ha già fatto in parte — arrestare e condannare tutti, con conseguenze che saranno più gravi di ogni sanzione, anche senza bisogno di ingerenze esterne. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Giornalista professionista freelance e documentarista, lavora come reporter in aree di crisi dal 2007 ed è conduttrice e autrice per Rai Radio 3. Specializzata in Medio Oriente, con particolare focus su Iraq e Yemen, ha lavorato dal 2012 al 2015 come corrispondente da Sanaa (Yemen) per l’agenzia video-giornalistica americano-libanese Transterra Media. Collabora con media stranieri (The Washington Post, Al Jazeera English, Al Jazeera Arabic, TrtWorld, Cgtn, Rsi, Index on Censorship, The Fair Observer, Guernica Magazine, The Week India) e italiani (fra gli altri, Rainews24, Tg3 Agenda del Mondo, Sky Tg24, Tv2000, Radio Popolare, Radio in Blu, Radio24, Avvenire, La Stampa). Ha girato, autoprodotto e distribuito dieci documentari, tra i quali Yemen, nonostante la guerra, prodotto Ga&A nel 2019 e acquistato da Rai Doc, Zdf, Al Jazeera Arabic. Il film è uno spaccato nella vita dei civili yemeniti in guerra. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello Debole e Giornalisti del Mediterraneo. Dal 2007 insegna in diverse istituzioni italiane ed europee, compreso l’Istituto Reuters all’Università Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (Becco Giallo, gennaio 2017), tradotto in quattro lingue