Secondo un sondaggio dei giorni scorsi della Swg, il sentimento antifascista prevale in più della metà degli elettori di Giorgia Meloni. È poco o tanto quel 13% di elettorato che non ha chiuso i conti col Ventennio? Il problema è che quel 7% di italiani — tanti sono in valore assoluto — ha selezionato chi ci governa o fa il supplente del Presidente della Repubblica nata dalla Resistenza di socialisti, cattolici, comunisti, liberali, azionisti, monarchici contro la dittatura, il nazifascismo, il disonore. Una zona grigia di associazioni economiche e sociali (dalla chiesa alle organizzazioni industriali) che — ha scritto in questi giorni l’accademico dei Lincei Gianfranco Pasquino — «con il fascismo erano venute a patti e che del tutto consapevolmente cercarono, anche offrendo rifugio ai fascisti sconfitti, di mantenere i privilegi acquisiti». Una realtà attiva che opera tutt’oggi nell’azione politica e nel dibattito pubblico. È a questo retroterra che si rivolgono le parole indegne della seconda carica dello Stato. Sono queste radici che la premier Meloni non vuole o non può recidere, nonostante l’invito pubblico di Gianfranco Fini che la portò dalla sezione di Colle Oppio al ministero della Gioventù a ventinove anni. Vedremo oggi se avrà il coraggio di farlo


Questo editoriale apre il numero 37 del nostro magazine distribuito nelle edicole digitali dal 24 aprile 2023

L’editoriale di IGOR STAGLIANÒ

LO VEDREMO OGGI cos’altro tireranno fuori, in occasione dei 78 anni del 25 Aprile, i post fascisti assurti al governo del Paese per non onorare la Costituzione antifascista alla quale hanno giurato fedeltà. Dal florilegio delle ultime settimane ne sappiamo già abbastanza. Prendiamone atto, ricordiamo i fatti e andiamo avanti di conseguenza. Dagli Ignazio Benito Maria La Russa e dai Francesco Lollobrigida non ci si poteva attendere nulla di più. Né di diverso. Ma a chi si rivolgono con le loro frasi sgangherate sulla storia d’Italia — e sulla Storia tout court —, che essi ignorano quando non la manipolano consapevolmente? Secondo un sondaggio dei giorni scorsi della Swg, il sentimento antifascista prevale in più della metà degli elettori di Giorgia Meloni. È poco o tanto quel 13% di elettorato che non ha chiuso i conti col Ventennio? Il problema è che quel 7% di italiani — tanti sono in valore assoluto — ha selezionato chi ci governa o fa il supplente del Presidente della Repubblica nata dalla Resistenza di socialisti, cattolici, comunisti, liberali, azionisti, monarchici contro la dittatura, il nazifascismo, il disonore. 

Piero Calamandrei, giurista del Partito d’Azione, fra i padri costituenti della Repubblica, fondatore e direttore della rivista “Il Ponte”

«Una delle cose più gravi del fascismo è stato questo: uccidere il senso della patria», annota il 1° agosto del 1943 nel suo diario l’azionista Piero Calamandrei. Il regime era caduto da una settimana «con la sua orgia di retorica patriottarda, con l’apologia della violenza e della sopraffazione», ha scritto lo storico Alessandro Galante Garrone. Il sigillo finale del disonore sarebbe giunto un mese dopo con la Repubblichetta di Salò, fantoccio “istituzionale” di Hitler che deporta in Germania oltre 600mila militari italiani, sfruttati come forza lavoro per l’industria bellica tedesca, per non aver aderito alla Repubblica Sociale o essersi rifiutati di giurare fedeltà al Terzo Reich. Hanno chiesto scusa a questi italiani i post fascisti al governo quando blaterano, ancora oggi, di “pacificazione nazionale” e di “onore della Patria”? Un onore che i loro padri politici hanno infangato nelle atrocità.

Quel 13% di italiani legato, nonostante tutto, al mito fascista è figlio del ventre molle della nostra Repubblica. Mentre l’amnistia di Palmiro Togliatti dal giugno del 1946 liberava spie, rastrellatori, fucilatori di partigiani e persecutori degli ebrei, tra 15 e 20mila partigiani finivano in tribunale. Non riconosciuti «legittimi belligeranti» se non dalla sentenza della Cassazione nel 1957 sull’attentato di via Rasella, i partigiani — combattenti e non combattenti — finirono dietro le sbarre come “assassini”, “vigliacchi”, “terroristi”. Processati dagli stessi giudici del Ventennio grazie alle leggi fascistissime” volute dal Duce tra il 1925 e il 1926, dopo l’assassinio di Matteotti e l’incarcerazione di Gramsci. Nel 1948, a un raduno dell’Anpi nel Cimitero di Milano c’erano 40mila persone per l’inaugurazione del monumento a chi aveva sacrificato «la vita all’Italia e alla libertà tra il 1922-1945». Furono arrestati i partigiani con il fazzoletto rosso, segnala la Direzione generale di pubblica sicurezza nella lettera inviata subito dopo a Roma al ministero dell’Interno.

«Se qualcuno, quando eravamo sulle montagne a condurre la guerra partigiana, fosse venuto a dirci che un bel giorno, a guerra finita, avremmo potuto essere chiamati davanti ai tribunali, per rispondere in via civile di atti che allora erano il nostro pane quotidiano, gli avremmo riso francamente in faccia»: è quanto scrive Dante Livio Bianco (medaglia d’argento al valor militare) nel 1947 su “Il Ponte” diretto da Piero Calamandrei, uno dei padri della Costituzione antifascista. Ed è l’esergo con il quale la giovane storica Michela Ponzani apre il suo “Processo alla Resistenza” pubblicato in questi giorni da Einaudi con le carte giudiziarie che documentano le ingiustizie patite da tanti partigiani. Tutto da leggere.

Roma 17 dicembre 2022. Giorgia Meloni, Ignazio La Russa e Francesco Lollobrigida in un raduno del partito della premier. Foto di Fabio Frustaci, credit Ansa

E quelli che si erano messi dalla parte sbagliata della storia (funzionari pubblici, intellettuali, imprenditori), graziati dall’amnistia di Togliatti? Affollano da subito la zona grigia della Repubblica antifascista. I Rodolfo Graziani, macellaio del Fezzan, i Junio Valerio Borghese e tanti altri loro camerati vengono condannati a pene lievi, reclutati e inquadrati nei ranghi dei servizi anglo-americani per combattere comunisti e socialisti. O nei servizi paralleli “coperti”, per fomentare disordini, organizzare attentati e stragi, preparare colpi di Stato. Eletti nelle file del Movimento Sociale Italiano. Una storia durata fino agli anni Ottanta del Novecento, come ha documentato Stefania Limiti ne “L’Anello della Repubblica” per l’editrice Chiarelettere. Una zona grigia di associazioni economiche e sociali (dalla chiesa alle organizzazioni industriali) che — ha scritto in questi giorni l’accademico dei Lincei Gianfranco Pasquino — «con il fascismo erano venute a patti e che del tutto consapevolmente cercarono, anche offrendo rifugio ai fascisti sconfitti, di mantenere i privilegi acquisiti» nel Ventennio. Una realtà incisiva che opera tutt’oggi nell’azione politica e nel dibattito pubblico.

È a questo retroterra che si rivolgono le parole indegne della seconda carica dello Stato. Sono queste radici che la premier Meloni non vuole o non può recidere, nonostante l’invito pubblico di Gianfranco Fini che dalla sezione di Colle Oppio la portò al ministero della Gioventù a ventinove anni nel terzo governo Berlusconi — altro che l’undergog insufflato dal suo abile ghostwriter. Finora non l’ha fatto, per non essere accusata di tradimento dai neo e post-fascisti, seguaci di Giorgio Almirante, fucilatore di partigiani e segretario di redazione de “La difesa della razza”. Ed è per questa ragione che la Resistenza politica e morale continuerà. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Direttore - Da inviato speciale della Rai, ha lavorato per la redazione Speciali del Tg1 (Tv7 e Speciale Tg1) dal 2014 al 2020, per la trasmissione “Ambiente Italia” e il telegiornale scientifico "Leonardo" dal 1993 al 2016. Ha realizzato più di mille inchieste e reportage per tutte le testate giornalistiche del servizio pubblico radiotelevisivo, e ha firmato nove documentari trasmessi su Rai 1, l'ultimo "La spirale del clima" sulla crisi climatica e la pandemia.