L’avv. Bianca Guidetti Serra in aula; sotto il titolo, operai Fiat entrano in fabbrica

Quando entrai negli uffici di via Giacosa a Torino per le indagini sulle schedature alla Fiat, trovai anche le buste contenenti le poche lire destinate ai funzionari pubblici che passavano le informazioni. All’ultimo piano della direzione aziendale, trovai uno di quelli che raccoglievano informazioni sui lavoratori intento a distruggere fogli su fogli in un tritacarte. In un enorme salone traboccante di faldoni su metri e metri di scaffali trovai 354.077 schede che descrivevano la vita privata, gli orientamenti politici e persino le inclinazioni sessuali dei dipendenti dell’azienda, di molti sindacalisti, politici e personaggi di spicco della vita italiana. Fra i difensori dei lavoratori, c’era l’avvocata Bianca Guidetti Serra, costretta all’andirivieni con Napoli dopo che la Procura generale di Torino chiese di trasferire il processo a Napoli…


Il ricordo di RAFFAELE GUARINIELLO, magistrato

HO AVUTO PIÙ OCCASIONI d’incontrare l’avv. Bianca Guidetti Serra, anche se sempre e soltanto come magistrato nelle aule giudiziarie. Tra queste occasioni, ce ne sono state due che ricordo più di ogni altra. E sono entrambe occasioni motivate dall’applicazione dello Statuto dei Lavoratori. Nella prima occasione, relativa alle schedature alla Fiat, entrò in gioco l’art. 8. Nella seconda occasione, l’art. 5, nell’ambito di un’inchiesta nata dalla denuncia di casi di operai infortunati fatti rientrare al lavoro senza essere guariti. Alcuni di loro ancora con il braccio al collo, o le fasciature in altre parti del corpo. A decidere delle sorti e della gravità dei loro traumi erano gli accertamenti eseguiti nelle sale mediche Fiat dai medici e dagli infermieri di fabbrica, alle dirette dipendenze dell’azienda. L’articolo 5 dello Statuto lo vieta. 

Due storie diverse, dunque, ma accomunate da aspetti comuni. E il primo aspetto è che hanno riguardato entrambe la Fiat. Il secondo aspetto comune è che nell’uno come nell’altro caso si tentò di spostare il processo in altra sede. Il tentativo riuscì nel caso delle schedature, come l’avv. Guidetti Serra sperimentò con i suoi continui viaggi a Napoli. Non riuscì invece nel secondo caso. Mi sono sempre chiesto come mai con tanti processi delicatissimi celebrati a Torino, toccò a due miei processi la sorte, o l’onore, di una richiesta di rimessione ad altra sede. 

Il pretore di Torino Raffaele Guariniello, titolare delle indagini sulle schedature alla Fiat negli anni ’70

Già il 6 agosto 1971, addirittura il giorno successivo alla perquisizione in Fiat, mi telefonò un autorevole Sostituto della Procura della Repubblica di Torino per dirmi: primo, che il Procuratore della Repubblica — chissà da chi informato della perquisizione fatta appena il giorno prima — voleva parlarmi; secondo, che dovevo al più presto trasmettere gli atti per competenza alla Procura della Repubblica; terzo, che non dovevo parlarne con nessuno; quarto, dulcis in fundo, che con il mio sequestro avrei violato le norme a tutela di notizie coperte dal segreto di Stato. In un lampo intervenne lo stesso Procuratore generale presso la Corte d’appello, e su sua richiesta il processo emigrò a Napoli.

Diciotto anni dopo, la mattina del 7 ottobre 1989 — uno dei giorni più difficili della mia vita professionale — arrivai in ufficio pronto a scendere nell’aula al piano terreno per dare inizio al dibattimento per le sale mediche. Ma appena entrato nella mia stanza vidi sulla scrivania una linda, ma inquietante busta chiusa intestata alla Procura generale della Corte d’Appello. Dentro la busta, trovai un foglio nel quale il procuratore generale mi comunicava di aver chiesto alla Corte di Cassazione che il processo, proprio il processo che avrei dovuto iniziare pochi minuti dopo, venisse trasferito ad altra sede per gravi e improrogabili esigenze di ordine pubblico. Gli telefonai. Mi disse che a suo parere non si doveva tenere neppure l’udienza, tanti e tali erano i rischi per Torino, per l’incolumità dei cittadini. Mi citò anche un articolo uscito quello stesso giorno sul “Sole 24 Ore” che descriveva Torino come una città in stato d’assedio proprio a causa di quel processo.

Ero obbligato a rinviare il dibattimento, a non aprirlo nemmeno. Non fu un momento facile. Mi tornarono alla mente le schedature Fiat. Eppure, tra le schedature e le sale mediche, erano passati diciotto anni, durante i quali Torino aveva vissuto processi drammatici, come quello alle Brigate rosse. Pensai: non sono stati mandati “fuori” nemmeno i processi contro i terroristi, e chiedono di farlo con un reato di pretura?

Cesare Romiti, amministratore delegato, e Gianni Agnelli, presidente della Fiat

In quasi vent’anni, a Torino, i due processi per i quali era stata avanzata la richiesta di trasferimento ad altra sede erano stati istruiti da un pretore, che quindi non procedeva per reati enormi, ed entrambi riguardavano la Fiat. Pochi giorni dopo, però, un collegio della Cassazione presieduto da Corrado Carnevale, relatore il futuro presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi, stabilì che il processo non doveva essere trasferito altrove, perché si stava svolgendo nella sede appropriata. La nostra. Rifissai il dibattimento per il 7 aprile 1990. Il processo si svolse nei confronti dell’amministratore delegato e di tre direttori a vario titolo delle relazioni industriali. Ma questa volta, proprio pochi giorni prima dell’udienza, al posto della prescrizione arrivò una provvidenziale amnistia. 

I due processi, delle schedature e delle sale mediche, mi confermarono che fare certi processi può trasformarsi in una corsa a ostacoli. Ma insieme mi confermarono che non bisogna mai scoraggiarsi. È difficile, ma non sempre impossibile. Ogni passo avanti è una grandissima conquista. Da allora ho sempre messo nel conto l’idea di non vivere nel migliore dei mondi possibili. Con inchieste che toccano interessi delicati, già il solo andare avanti può essere un’impresa. La cosa importante è produrre degli effetti. Nello stesso momento in cui un magistrato si occupa di un determinato argomento, provoca già una reazione. Perché limitarsi, perché rinunciare ad agire, se con altri — si badi doverosi — interventi si riesce a ottenere dei risultati, a fare qualcosa di positivo per la comunità, a sottolineare problemi reali? Dopo le inchieste sulle schedature e sulle sale mediche l’azienda modificò le sue strategie. 

È un insegnamento da tener presente più che mai oggi: un’epoca in cui i diritti, i diritti dei più deboli, non sono adeguatamente tutelati. Mi limito a fare un solo esempio. L’altro giorno una notizia pubblicata dai quotidiani ha suscitato stupore: «Nessun colpevole. Sono le ultime parole della Corte di Cassazione, che chiudono definitivamente il maxi processo per le morti da amianto al petrolchimico di Ravenna». Ma c’è poco da stupirsi. Dal 2016 la Cassazione ha già pronunciato 24 sentenze che escludono la responsabilità del datore di lavoro per i tumori da amianto. Si è così diffuso un senso d’impunità, l’idea che le regole c’erano e ci sono, ma che si potevano e si possono violare senza incorrere in effettive responsabilità. E si è diffuso tra le vittime e i loro parenti un senso di giustizia negata. E tra i magistrati di merito regna lo scoraggiamento. E invece non bisogna demordere.

Manifesto della Flm, Federazione lavoratori metalmeccanici, sulle schedature Fiat

Certo, non è male in questo tipo di indagini il colpo di fortuna. Nel caso delle schedature, quando entrai negli uffici di via Giacosa, trovai anche le buste contenenti le poche lire destinate ai funzionari pubblici che passavano le informazioni. Ma mai avrei immaginato di scoprire quello che scoprii dopo. Il destino volle che, durante la perquisizione di quegli uffici, arrivò uno di quelli che raccoglievano informazioni sui lavoratori. Appena ci vide, se la diede a gambe. Mi venne l’idea di seguirlo. Entrò nella palazzina di corso Marconi, salì all’ultimo piano. Ci salii anch’io. Lo vidi intento a distruggere fogli su fogli in un tritacarte. Ma soprattutto mi trovai in un enorme salone traboccante di faldoni riposti nei ripiani di metri e metri di scaffali. Mi ricordava l’archivio di stato. E invece dentro quei faldoni trovai 354.077 schede che descrivevano la vita privata, gli orientamenti politici e persino le inclinazioni sessuali dei dipendenti dell’azienda, di molti sindacalisti, politici, personaggi di spicco della vita italiana. Peraltro, non è semplice farlo. 

Pochi giorni dopo il 5 agosto 1971, come mi era stato richiesto, andai nell’ufficio del Procuratore della Repubblica. Oltre a dirmi che l’avevo «fatta grossa», mi raccontò una storia che si è rivelata profetica. «Ognuno di noi magistrati» disse «ha una specie di sacchetto nel quale si vanno a mettere le pietre bianche e quelle nere. Le cose buone, e le cose cattive». E aggiunse: «quando arriverà il momento, ad esempio un concorso per il posto di capo di un ufficio giudiziario, si conteranno quante sono le pietre di ciascun colore». Uscii turbato da quella stanza, tanto più sontuosa e tanto più sacrale rispetto al modesto, oscuro ufficio che al piano terreno della Pretura di via Corte d’Appello dividevo con un collega meno giovane. 

I nostri padri costituenti hanno regalato al Paese un grande principio, l’autonomia della magistratura dal potere politico. Eppure, quanto può essere dirompente nell’animo di un magistrato, per di più se giovane, anche una semplice parola, addirittura il tono di una parola. Lo confesso. Ogni volta che nel corso della mia vita di pretore e poi di pubblico ministero mi sono trovato di fronte alla necessità di una scelta delicata, il racconto di quel sacchetto, l’incubo delle pietre nere, mi sono tornati alla mente e nel cuore. Non tocca a me dire se sono poi riuscito a fare la scelta giusta, ma ogni volta, lo dico senza presunzione, ho fatto la scelta che mi dettava la coscienza, senza farmi frenare dal presentimento che una pietra per me bianca potesse essere giudicata un domani nera. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Ha svolto la funzione di magistrato dal 1969 al 29 dicembre 2015: prima come Pretore, poi Giudice per le Indagini Preliminari presso la Pretura, poi Procuratore della Repubblica Aggiunto presso il Tribunale di Torino e Coordinatore del Gruppo Sicurezza e Salute del Lavoro, Tutela del Consumatore e dei Malati presso la Procura della Repubblica di Torino. Consulente della Commissione parlamentare di inchiesta sugli effetti dell'utilizzo dell'uranio impoverito dal 2016 al 2018. Nominato Presidente della Commissione Amianto istituita dal ministro dell’Ambiente con Decreto del 30 aprile 2019. Ha pubblicato nel 1985 il saggio "Se il lavoro uccide" per la Casa Editrice Einaudi, e l'opera "La Giustizia non è un sogno" nel 2017 per la Casa Editrice Rizzoli. Inoltre, in particolare, "Codice della Sicurezza degli Alimenti commentato con la giurisprudenza”, seconda edizione - Wolters Kluwer 2016; "II Testo Unico Sicurezza sul lavoro commentato con la Giurisprudenza”, Wolters Kluwer, Milano undicesima edizione, 2020".