
Era il più abile saettatore dopo Zeus e Apollo. Fu abbandonato da Ulisse sull’isola di Limnos e poi salvato con l’aiuto di Neottolemo. Era in possesso dell’arco di Eracle che avrebbe permesso ai greci di vincere la guerra di Troia. Il nostro cronista si imbuca in un gymnasium di Taormina, a una lezione sul principe tessalo dove si discute sui motivi che l’hanno spinto fin lì e sul luogo nel quale sarebbe sopraggiunta la sua morte. Scopre così che la presenza in Magna Grecia del mitico saettatore è attestata da svariati miti: potete farlo anche voi, scendendo dal seggiolone del bar di Facebook e facendo visita a Sofocle
Il racconto di ARTURO GUASTELLA, nostro inviato in Magna Grecia
LÌ, A LEMMO, un’isola dell’Egeo nord orientale, una terra non calpestata dal piede umano, in un imprecisato giorno dell’ultimo quarto del secondo millennio avanti Cristo, Odisseus istruiva Neottolemo, il figlio di Achille, a «cercare una caverna con doppia entrata, tale che in essa d’inverno è possibile sedersi al sole da due parti e d’estate la brezza che circola per entrambe le aperture favorisce il sonno. Poco più in basso, a sinistra – continuava il laerziade – se c’è ancora, dovresti scorgere una fonte di acqua sorgiva. Avvicinati alla rupe e, in silenzio, indicami con un cenno se lui vive in questo luogo, oppure altrove».

Il “lui”, in questo caso, era Filottete, signore di Methone, Thaumachia, Meliboa e Olizon, nella tessalica penisola di Magnesia (Iliade, Catalogo delle navi). Ulisse aveva consigliato agli achei, che facevano vela verso Troia, di abbandonarlo alla sua dolorosissima cancrena, causata dal morso di un serpente, non potendone più sopportare le sue grida di dolore. Tranne, poi, con incredibile faccia tosta, tornare a Lemno, per riprenderlo facendosi, però, accompagnare dal figlio del più valoroso dei greci. Gli era stato vaticinato che gli achei, dopo anni di assedio, non avrebbero mai potuto espugnare la città di Priamo senza l’arco di Eracle in possesso, per l’appunto, di Filottete. Alla domanda di Neottolemo, perché non andassero insieme, Odisseus rispose con queste parole: «Temo fortemente che potrebbe piombarmi di sorpresa, poiché egli preferirebbe certo mettere le mani su di me, che su tutti gli altri greci, e non avrei scampo perché egli è il più abile saettatore dopo Zeus ed Apollo». Così scrive, nel suo Filottete, Sofocle. E se, per qualche caso, il tragediografo di Atene vi risultasse antipatico, potrete trovare notizie dell’eroe tessalo anche in Euripide, Eschilo, Filolao, Teodette, fino alla poesia di Euforione.
Ora che vi ho, come di consueto, confuso con nomi e citazioni, giuro che essi, questi nomi e decine di altri ancora, me li ha porti, con disinvoltura, un certo Timeo, che, con un altro storico, Diodoro Siculo, stava tenendo una lezione in un gymnasium di Tauromenium, a Taormina per capirci, dove mi ero proditoriamente imbucato. «È noto a tutti ‒ aggiunse lo storico siciliano ‒ il mito di Filottete, del quale da Troia, dalla sua Tessaglia, e da Melibea ne abbiamo seguito le tracce fin qui, in Magna Grecia, dove la sua presenza è attestata da innumerevoli miti». In quel momento il vostro cronista si rese conto di tutta la sua inadeguatezza di fronte a quell’uditorio che, seppur giovane, dava per scontato quanto sottinteso da Timeo.

E il dejà entendu, il già vissuto, lo riportò indietro di qualche anno. Alle prime lezioni di analisi matematica alla Sapienza, quando il giovanissimo leccese, Carlo Bernardini, con altrettanta nonchalance, metteva alla lavagna una sfilza di numeri e di segni matematici, per affermare, poi, come «da questa espressione si deduce facilmente che», e passava ad un’altra sfilza di numeri, segni grafici, parentesi tonde, quadre e graffe. Quel “facilmente” alla scrivania mi portava via ore ed ore. L’indomani, in ogni caso, di Filottete avevo letto tutto, saccheggiando letteralmente la Treccani. Wikipedia, non c’era ancora, ma penso che per la sua approssimazione non avrebbe avuto, in quel contesto, diritto di cittadinanza. E, inoltre, qualche anno dopo, non contento, volli visitare quella “isola mai calpestata da uomo”, e dopo aver preso il traghetto a Kavala e al termine di un viaggio di quasi cinque ore, approdai a Limnos.
Qui, con piacevole sorpresa, nei pressi dell’antica Efestia, non ritrovo la grotta di Filottete, proprio sotto il tempio di Kavirio? Solo che l’antro del mitico saettatore è ora accessibile soltanto in barca. Tuttavia, chiudendo gli occhi, e con un po’ di fantasia, non era difficile immaginare, giusto il racconto di Timeo, il sofferente Filottete, vagare, lamentandosi, da un dirupo all’altro, sacramentando l’Odiato (Ulisse) che lo aveva qui abbandonato, privandolo della fama imperitura che gli achei avrebbero avuto dalla spedizione a Troia. E, a ben guardare, mi è parso persino di scorgere i due fratelli medici, Macaone e Podalirio, figli di un autentico “nume della medicina”, vale a dire Asclepio, che lo avevano curato e risanato. «Ma solo nel corpo – dice Odisseo a Neottolemo – perché la sua ira nei miei confronti è ancora più mortale dei suoi dardi». Non voglio raccontarvi come il figlio di Achille e l’astutissimo re di Itaca, riuscirono, con l’inganno, a portare Filottete e il suo infallibile arco, nei pressi delle porte Scee, e quindi avere ragione dei discendenti di Dardano. Basta che per qualche mezzoretta, scendiate dal seggiolone del bar di Facebook e andiate a fare visita a Sofocle, chiedendogli direttamente lumi sulla vicenda di Filottete.

In ogni caso, l’eroe tessalo lo ritroviamo in Magna Grecia. Mi piace immaginare, a questo punto, che Filottete fosse venuto qui, da noi, al seguito del suo medico Podalirio, che, a dire di Strabone era morto in Daunia, con la sua tomba ai piedi del monte Drion, tra Salapia e Siponto; per Licofrone, Podalirio era morto e sepolto invece nella Siritide, nei pressi di Policoro. Come già per Diomede, dunque, anche Filottete, risanato, viene in questa terra, la terra dei Chones, dove ha trovato morte e sepoltura anche il celebre indovino Calcante. E dove il principe tessalo, dopo aver fondato la città di Chone, muore in prossimità dei fiumi Sibari e Crati. Muore combattendo, però, il re di Magnesia. Essendo qui venuto in aiuto di un altro eroe dell’epos omerico, Tlepolemo, signore di Rodi (dove aveva fondato le città di Lindo, Ialiso e Camiro), ma a cui, evidentemente, l’isola del Colosso stava stretta e i dieci e più anni dell’assedio di Troia gli avevano messo nel sangue la febbre dell’avventura e la smania dei combattimenti.
Tuttavia, il poeta Stesicoro − c’era anch’egli nella lezione al gymnasium di Taormina −, intervenendo, fece notare che Filottete avesse trovato la morte forse non in Capitanata, ma più a sud di Sibari, nel crotoniate. E, comunque, proprio a Metaponto, nel suo teatro, si tenne la “prima” del Filottete di Sofocle. Ed allora, perché non approfittarne, e fare qualche chilometro fino a Metaponto? Qui, la “proedria”, la prima fila del teatro, era occupata dai notabili del luogo, per cui al vostro cronista gli è toccato accomodarsi in “piccionaia”, con le orecchie appuntite per non perdere neanche una battuta dei dialoghi sofoclei. E quasi dimenticavo di dirvi che, stavolta, il tempo non è né il chronos (la successione degli istanti) né il kairos (il momento giusto, l’attimo fuggente), ma l’aion, l’eterno ritorno, per il quale il futuro resta impigliato nell’ordito di un “ritorno del sempre identico”. Già, perché è vero che siamo a Metaponto, ma nel 405 avanti Cristo, a cinque anni esatti, cioè, della prima rappresentazione del Filottete ad Atene. © RIPRODUZIONE RISERVATA