Il poster del film con Kirsten Dunst, Wagner Moura, Cailee Spaeny e Stephen McKinley Henderson, nelle sale dal 18 aprile

La storia racconta il viaggio da New York a Washington D.C. per documentare la guerra civile in atto negli Stati Uniti d’America di quattro giornalisti che sperano di accaparrarsi quella che nel film viene definita l’ultima notizia da raccontare: un’intervista al presidente degli Stati Uniti. Il lungometraggio ambientato in un futuro distopico è una riflessione sul fotogiornalismo e sul rapporto fra orrori di guerra e fotogiornalismo, fra mentore e allieva: Lee (Kirsten Dunst), nota fotoreporter, e l’aspirante fotoreporter Jesse (Cailee Spaeny). Lee incarna il distacco necessario con cui il fotogiornalista assiste a scene di enorme sofferenza e crudeltà senza farsi influenzare, mentre Jessie l’inesperienza e la tenacia di chi ha ancora tanto da imparare della vita e del mestiere


◆ L’anteprima di GIULIA FAZIO

Cosa accadrebbe se una guerra civile imperversasse negli Stati Uniti d’America? Non sembra tanto improbabile e lontano il futuro rappresentato nel nuovo film di Alex Garland che con Civil War torna a parlare di futuri possibili, nelle sale dal 18 aprile. Sono passati tre anni dall’assalto a Capitol Hill, quando nella “marcia per salvare l’America” i manifestanti pro-Trump misero a ferro e fuoco il palazzo del Campidoglio e il quartiere circostante. Scene impresse nella memoria comune e che rendono la finzione cinematografica più plausibile e angosciante. 

Il lungometraggio, ambientato in un futuro distopico, si apre con il discorso di un presidente al suo terzo mandato, interpretato da Nick Offerman, intervallato da fittizie immagini di reportage che narrano della drammatica situazione statunitense in cui le forze del Texas e della California formano un “fronte occidentale” che si oppone alle forze governative. Lee (Kirsten Dunst), nota fotoreporter, e Joel (Wagner Moura), il collega giornalista, intraprendono un viaggio da New York a Washington D.C. per documentare la guerra civile in atto. Sperano così di riuscire ad accaparrarsi quella che nel film viene definita l’ultima notizia da raccontare: un’intervista al presidente degli Stati Uniti. A loro si uniranno anche l’aspirante fotoreporter Jesse (Cailee Spaeny) e l’anziano giornalista Sammy (Stephen McKinley Henderson). 

Kirsten Dunst e Cailee Spaeny in una scena del film di Alex Garland

La storia tralascia ogni dettaglio o precisazione sulle possibili cause all’apice del conflitto, lasciando interamente allo spettatore la deduzione dei fatti. Quel che lascia perplessi è infatti l’assenza di politica in un film apparentemente politico. Alex Garland, già autore di altri sci-fi come Ex Machina e Annientamento, indugia piuttosto sul paesaggio distopico composto da autostrade desolate, parchi divertimento natalizi abbandonati in piena estate, corpi appesi e torturati nelle pompe di benzina e città in fiamme. La rappresentazione di un simile orrore diviene problematica in termini di messa in scena, ma lo è ancora di più se si vuole sondare il rapporto tra orrori di guerra e fotogiornalismo. Infatti, punto focale della vicenda è la spettacolarizzazione della violenza attraverso la fotografia, così come definita in Davanti al dolore degli altri da Susan Sontag. Sin dalle prime scene, Lee si mostra impassibile davanti ai tumulti e alla violenza e, destreggiandosi tra il caos delle rivolte e dei conflitti armati, scatta senza sosta le sue istantanee. Jesse, tuttavia, è incerta e poco avvezza. A seguito di ogni click della macchina fotografica, il regista britannico ci mostra il risultato dello scatto, punteggiando così la narrazione di bellissime ma violente immagini: testimoni equanimi di sofferenza, morte e dolore. 

Lee incarna il distacco necessario con cui il fotogiornalista assiste a scene di enorme sofferenza e crudeltà senza farsi influenzare, mentre Jessie l’inesperienza e la tenacia di chi ha ancora tanto da imparare. Eloquenti sono le parole pronunciate da Lee: “ogni volta che sono sopravvissuta in una zona di guerra pensavo di star mandando un monito a casa: non fatelo”. La riflessione sul fotogiornalismo, e il rapporto fra mentore e allieva formato dalle due donne, sono quindi le componenti che donano profondità alla storia. La fotografia è il mezzo più potente di descrizione della realtà, poiché acquisisce l’immediatezza documentaria, e il film riesce nel raccontare le difficoltà dell’impresa. Non si può infatti non pensare a Robert Capa e alla sua celeberrima foto del soldato ferito a morte, divenuta simbolo della guerra.

Civil war restituisce delle immagini accattivanti trascinando lo spettatore in un viaggio on the road adrenalinico, e il forte impatto sonoro catapulta nel pieno del conflitto. Quel che manca tuttavia è la provocazione, al di là di quella prettamente visiva.

Classe 1994. Aspirante sceneggiatrice e critica cinefila anarchica. La grande passione per la Storia e la Letteratura la portano a laurearsi in Triennale in Lettere Moderne presso l’Università degli studi di Catania con una tesi in Letterature Comparate dal titolo Jules e Jim, dal romanzo al film. Invece, per assecondare l’altra passione - il cinema - decide di laurearsi in Magistrale in Cinema, Televisione e Produzione Multimediale presso il Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università degli Studi di Roma Tre. Collabora con alcuni Festival del cinema in Italia e in Canada; e svolge il ruolo di selezionatrice e giurata. La passione per la Settima Arte si affianca a quella per l’Arte e la Letteratura, e non immagina un mondo in cui la cultura muoia senza lottare.