
In cerca di maggiori introiti, le società di calcio accelerano sulla costruzione di stadi all’inglese: piccoli, comodi, attorno a nuovi centri commerciali. Aspirazione legittima ma discutibile se si privatizzano spazi pubblici, a titolo gratuito, per gentile concessione dei Comuni. Non è un mistero che il calcio sia uno dei settori più opachi della nostra economia, come dimostrano le ultime cronache sulle plusvalenze alla Juventus e non solo. In ballo piani finanziari colossali: solo a San Siro, 1,2 miliardi di euro; al Parma calcio si cede il vecchio Tardini; a Roma la palla su Tor di Valle passa dalla Raggi a Gualtieri con un potenziale conflitto milionario; a Firenze il destino del vecchio Franchi affidato a un concorso pubblico
L’analisi di PAOLO SCARPA
IN MOLTE CITTÀ italiane si accelera verso la costruzione di nuovi stadi, sulla spinta delle società calcistiche, in cerca di maggiori introiti a compensazione di pesanti indebitamenti. Il modello è quello degli stadi inglesi, piccoli, comodi, sicuri, raccolti attorno a nuovi centri commerciali in cui si vende di tutto, dalle maglie dei campioni di casa, alla bigiotteria, alla Coca Cola. Queste operazioni muovono interessi enormi, legittimi se rimangono nell’ambito privato, più discutibili quando si traducono nella privatizzazione permanente di spazi pubblici, a titolo gratuito, per gentile concessione delle amministrazioni comunali.

E questo è il caso di quasi tutti i progetti per i nuovi stadi, che le società potranno costruire e gestire in forma privata ed esclusiva su aree pubbliche, in cui verranno realizzati anche centri commerciali, con piani finanziari di dimensioni colossali (per il nuovo San Siro la previsione è di 1,2 miliardi di euro). Lo strumento è quello delle convenzioni urbanistiche pluridecennali, con durate sino a 90 anni: il Comune concede un’area o un’infrastruttura (come gli attuali stadi) in costruzione e gestione per 90 anni e fino ad allora sarà la proprietà a dettare legge, salvo il rispetto di clausole concordate. Di fatto, una privatizzazione. Il calcio e la sua popolarità divengono così pretesto per superare vincoli altrimenti non derogabili: dietro blasoni sportivi che appartengono a tutti, ci sono società private, la cui proprietà è a volte persino poco identificabile e la cui solidità e trasparenza non è sempre ineccepibile.
Non è un mistero che il calcio sia uno dei settori più opachi dell’economia di questo paese. Stando alla cronaca, sono di queste settimane le indagini sulle plusvalenze e i bilanci taroccati di varie società, come le disavventure personali di Ferrero, presidente della Sampdoria. Anche l’arrivo di tanti investitori stranieri in Italia che fanno shopping di società calcistiche e di cui a volte si sa poco o nulla, dovrebbe indurre per lo meno a prudenza. Ma non è così e la spinta a concedere gli stadi e le aree annesse alle società, sposando acriticamente i loro progetti, sembra inarrestabile.

A Milano il sindaco Beppe Sala è determinato a portare in esecuzione il progetto proposto dalle proprietà di Milan e Inter che prevede l’abbattimento di San Siro e la costruzione di uno stadio privato, circondato da attività commerciali, nonostante l’opposizione di parte della sua maggioranza e di influenti aree della tifoseria, famiglia Moratti in testa. Approvata la delibera sul “pubblico interesse”, bocciata invece la proposta di un pubblico dibattito, il progetto andrà avanti senza ostacoli e sarà affidato in toto alle due società, oggi in mano a soggetti stranieri (il Fondo Elliott americano per il Milan e un imprenditore cinese per l’Inter, che sarebbe però in procinto di vendere a una società araba). Alla fine tra i vari progetti presentati l’ha spuntata quello dello studio americano Populous.
A Parma la giunta ex-cinquestelle di Pizzarotti allo stesso modo ha sposato il progetto della proprietà americana di Kyle Krause del Parma Calcio. La convenzione urbanistica che la giunta intende promuovere a favore della società di Krause prevede una durata di 90 anni e la cessione dell’area del vecchio Tardini, sostituito da un nuovo stadio e un centro commerciale, nel cuore di una città, la quale verrebbe espropriata di fatto, perché ad ogni partita un intero quartiere viene blindato, la mobilità urbana rivoluzionata. E anche in questo caso sembra non indurre ad alcuna riflessione la storia recente del Parma Calcio, che ha vissuto prima il crac Parmalat, poi il fallimento dello stesso Parma, sotto la presidenza dell’imprenditore bresciano Ghirardi.

A Roma la partita dello stadio di Tor di Valle sembra definitivamente chiusa dopo un balletto durato anni, iniziato già ai tempi di Alemanno e Marino e poi concluso dopo mille tentennamenti dalla giunta Raggi. Ma proprio Stefania Raggi dimostrò la debolezza della politica, quando, appena insediata nel 2016, invertì l’intransigenza del suo programma elettorale, contrario allo stadio, in una improvvisa disponibilità che indusse alle dimissioni uno dei simboli del nuovo corso, l’assessore all’Urbanistica Paolo Berdini. Solo a fine mandato Stefania Raggi revocò la delibera che aveva decretato il pubblico interesse per Tor di Valle, affossando di fatto il progetto ed innescando però in questo modo il rischio di un contenzioso milionario con la società proponente. Adesso la palla è in mano al nuovo sindaco Roberto Gualtieri e ci si può aspettare un’accelerazione, visto il grande interesse di Dan Friedkin, presidente americano della AS Roma, per l’area dell’ex Gazometro all’Ostiense.
A Firenze, all’ombra di Matteo Renzi, l’uomo del “nuovo rinascimento” (lo stesso che equipara il medioevo saudita alla Firenze di Michelangelo), venne promulgata dal suo ultimo governo una legge cosiddetta “sblocca-stadi” che avrebbe favorito la proposta di distruzione dello stadio Franchi di Firenze, una delle opere di Pier Luigi Nervi, forse il più grande progettista strutturale del secolo scorso, superando i vincoli di tutela storico-artistici: un’operazione che, dopo un intervento duro delle Soprintendenze, il sindaco Dario Nardella ha rimodellato, con una decisione più rispettosa, lanciando un concorso internazionale di idee tra architetti per la valorizzazione del Franchi, che lascerà al Comune, quindi alla collettività, la decisione finale su cosa farne e come.

E questo in effetti è il nodo: i luoghi e gli edifici pubblici appartengono a tutti e le istituzioni democratiche hanno il dovere di conservarne la gestione, guidandone le modalità di trasformazione. L’alternativa è la cessione di sovranità a favore di interessi privati, main stream della politica italiana, in cui si trovano ormai uniti destra e vasti settori di una sinistra che ha perduto la propria identità. © RIPRODUZIONE RISERVATA