Negli occhi abbiamo le immagini catastrofiche dell’alluvione spagnola e torna alla mente la devastazione di dieci milioni di metri cubi di foresta sulle Dolomiti schiantati a terra da una tempesta di acqua e vento generata nel Golfo del Tigullio nel Levante ligure. La stessa causa delle centinaia di morti e dispersi nel Sud della Penisola Iberica: il surriscaldamento progressivo delle acque del Mediterraneo. Ma non è il clima ad uccidere: è questa un’immensa sciocchezza, frutto di una diffusa deriva culturale. Ad uccidere le persone e a devastare la natura sono le scelte urbanistiche dell’uomo e la rincorsa di un Prodotto interno lordo come unico e fallace indicatore del nostro benessere. L’accatastamento di migliaia di auto nelle strade e nei garage di Spagna divenuti immensi cimiteri è la foto più emblematica di un modello di sviluppo fallimentare che continuiamo a perseguire. Anche sulle nostre montagne. Qui gli industriali della neve, una categoria imprenditoriale cieca e arrogante, ha sottomesso la politica che si sottrae oramai anche al confronto pubblico sulle scelte da compiere
◆ Il commento di LUIGI CASANOVA, presidente di Mountain Wilderness Italia
► Valencia ottobre 2024. Sei anni dopo la tempesta “Vaia” sulle Alpi orientali, stessi giorni di calendario. Una nuova tragedia. Nel 2018 sulle Alpi italiane si è dimostrato il fallimento di decenni di selvicoltura definita, ancora oggi, naturalistica: 10 milioni di metri cubi di schianti. La coltivazione delle foreste era tesa alla produzione: produrre ereditava una cultura vecchia di oltre un secolo. Oppure lasciava sui monti ampi spazi privi di gestione. Danni simili a “Vaia” erano ormai consuetudine sulle Alpi del Nord e sull’intera Europa, ma l’ambito forestale italiano li sottovalutava, in quanto quelle tempeste erano di origine atlantica. Si era convinti, in altri termini, che l’arco montano alpino riuscisse a fermare ogni evento calamitoso. Quindi si sottovalutava un fenomeno già in atto e pochi sapevano cosa accadeva negli altri paesi europei: centinaia di milioni di metri cubi di foreste ripetutamente schiantati e poi attaccate dal bostrico.
Da noi dopo “Vaia”, come era ovvio accadesse, è arrivata la pandemia dell’attacco di parassiti, il bostrico in particolare. Mentre qualche anno prima il bostrico provocava danni di circa la metà degli schianti da vento, sulle Alpi italiane, più calde, gestite in modo meno professionale nonostante il sommarsi di inutili certificazioni internazionali, raddoppiando i danni da vento. Siamo a una moria di oltre 20 milioni di metri cubi di legname, un’estensione territoriale di 38-40 mila ettari. E la situazione non è ancora risolta. “Vaia” non è stata la prima devastazione forestale dovuta alle acque del Mar Mediterraneo che anno dopo anno si surriscaldano. È stata la prima violenta scossa emotiva subita da chi le Alpi le abita. Uno schiaffo che ti rovescia ogni certezza. Migliaia di ettari di superficie forestali denudati. Chi, come il sottoscritto le Alpi le abita, riteneva che nel suo insieme il sistema forestale racchiudesse una fortezza di certezze. Così non è stato.
Ora la depressione atmosferica e la conseguente tempesta “Dana”, che ha causato la devastazione di un’ampia regione spagnola − con centinaia di morti, con città sventrate, con fiumi che hanno ripreso spazi che gli umani avevano scelleratamente invaso − ci riporta a riflettere su cosa significhi oggi sviluppo, crescita, su cosa sia importante: la quantificazione del Pil o invece il benessere del nostro vivere quotidiano e delle nostre comunità? Si è scritto, anche su stampa amica, che il clima uccide. Immensa sciocchezza, frutto di una diffusa deriva culturale. Sono le scelte urbanistiche dell’uomo ad uccidere persone e devastare la natura, provocando ovunque migrazioni sempre più problematiche di interi popoli. Il clima è conseguenza delle nostre scelte, passate e attuali. L’accatastamento di migliaia di auto nelle strade e nei garage di Spagna è la foto più emblematica di un modello di sviluppo fallimentare che continuiamo a perseguire.
Ora, impotenti, non ci resta che attendere i prossimi eventi. Perché non c’è volontà politica di invertire la rotta, di passare ad altre scelte. Della pochezza culturale di chi ci amministra troviamo dimostrazione giornaliera nel governo italiano, lo dimostrano quanti, da incoscienti, legiferano in Unione Europea. Il Mediterraneo, per decenni, proporrà le sue acque sempre più calde. Quando si formano depressioni, come con “Vaia” o come con “Dana” − sempre più frequenti −, l’evaporazione delle acque creerà situazioni, piogge e venti, sempre più intensi e devastanti. Dapprima questi eventi hanno colpito le Alpi (Vaia, 2018, ma già l’alluvione del 1966 aveva avuto dinamiche simili, seppur non uguali), ora la Spagna sudorientale. Chissà a breve dove accadrà: i Pirenei e la Catalogna, le Alpi francesi e l’occidente italiano, i paesi slavi e i Balcani, la Grecia?
Nel caso italiano abbiamo una associazione, l’Anef, gli industriali della neve, che dipingono noi ambientalisti come degli estremisti, privi di conoscenze scientifiche, poeti ideologizzati. Questi industriali della neve hanno una fiducia estrema nella tecnologia, vedono sempre rosa e potenziano ovunque le aree sciabili, a qualunque quota, anche in Appennino (grazie al sostegno di finanziamenti pubblici). Rappresentano un sistema di potere, una lobby quanto mai influente e i politici a questa lobby sono sottomessi. Nonostante l’evidenza dei drastici cambiamenti climatici in corso si attirano in quota masse di ospiti che poco o nulla conoscono della montagna, a questi turisti si prepara un’offerta di divertimenti, di svaghi, propria delle pianure e degli ambiti urbani. Si è in presenza di una categoria imprenditoriale cieca e arrogante, che impedisce perfino il confronto pubblico sulle scelte da compiere.
L’ennesimo devastante evento distruttivo che la popolazione spagnola sta subendo porterà i nostri politici ad assumere coraggio e a investire in innovazione, in altri percorsi? Percorsi segnati da poche significative parole che, qualora alimentate e sostenute, diffondono sviluppo e lavoro, anche in montagna: conservazione, biodiversità, rispetto dei corsi d’acqua e dei paesaggi, sicurezza. Non ci sembra di chiedere l’impossibile. © RIPRODUZIONE RISERVATA