L’acciaieria più grande d’Europa è il paradigma forse più crudo di come il progresso del XX secolo ha portato sviluppo e benessere, ma al prezzo incompreso, nascosto e a lungo taciuto di un disastro ambientale e sanitario tra i più gravi d’Italia e d’Europa. Una tragedia che ancora oggi lacera un territorio e la sua gente, storie di lavoro e vita ma anche di malattia e morte, che troppo a lungo sono state ignorate. L’azione giudiziaria avviata nel 2012 ha sbattuto in faccia all’Italia la tarda e definitiva epifania del lato oscuro del classico modello di sviluppo industrialista, su cui urgeva ed urge la transizione ecologica. Su Taranto lo Stato ci ha messo la faccia, rinunciando a una facile chiusura come accadde a Bagnoli e alla sua attuale, infinita, incompleta bonifica. Ma la giustizia, soprattutto penale, non sarà mai in grado di dare la risposta unica e definitiva: la verità giudiziaria, si sa, non sempre coincide con la verità storica, ammesso che in simili complesse vicende vi sia una sola verità

L’acciaieria di Taranto ripresa dall’alto; sotto il titolo, una manifestazione per le vie cittadine contro l’inquinamento ambientale (credit Ansa)

◆ Il commento di CORRADO CARRUBBA, giurista ambientale

Corte d’Assise del Tribunale di Taranto: l’aula del processo Ambiente Svenduto

La giustizia penale non dà ancora giustizia a Taranto; questo il pensiero di tutti dopo l’annullamento della sentenza di primo grado del maxi processo Ambiente Svenduto venerdì della settimana scorsa (su cui per “Italia Libera” ha già scritto domenica 15 l’ex magistrato Nicolangelo Ghizzardi). Un pensiero purtroppo comune, aldilà delle diverse valutazioni sui tecnicismi processuali che hanno portato a questo risultato, un risultato che oggettivamente delude nuovamente la comunità tarantina e specularmente fa tirare un sospiro di sollievo agli imputati in quel processo, a chi lo merita e a chi no. Ma il processo penale ha le sue regole, e il doppio grado di giudizio e infine quello di legittimità hanno fisiologicamente il fine di correggere eventuali errori, o comunque di confrontare giudici diversi e diverse soluzioni sul medesimo aspetto.

Taranto, la sua Ilva, il paradigma forse più crudo di come il progresso del XX secolo ha portato sviluppo e benessere, ma al prezzo incompreso, nascosto e a lungo taciuto di un disastro ambientale e sanitario tra i più gravi d’Italia e d’Europa. Una tragedia che ancora oggi lacera un territorio e la sua gente, storie di lavoro e vita ma anche di malattia e morte, che troppo a lungo sono state ignorate, sino a quando la situazione ormai incancrenitasi è divenuto oggetto di un’azione giudiziaria che, con i suoi limiti e meriti, ha comunque dal 2012 sbattuto in faccia all’Italia la tarda e definitiva epifania del lato oscuro del classico modello di sviluppo industrialista. Taranto come Priolo, Augusta, Genova, Casale Monferrato, Bagnoli, Seveso e molte altre cosiddette zone di sacrificio che la hanno preceduta.

I numeri riassuntivi dell’Ilva aggiornati al 2021 (credit Repubblica)

Ma la vicenda di Taranto è unica, solo a Taranto abbiamo assistito da dodici anni a una serie di tentativi di salvare l’ultimo polo siderurgico integrale italiano, pacificando l’industria con la terra che la ospita, dando un futuro che affondando le radici in quella gloriosa esperienza ma traendo esperienza dagli errori e insuccessi potesse guardare al futuro, coniugando economia, produzione, sviluppo giusto, ambiente, salute. Con sulle spalle una insolvenza accertata di miliardi di euro per migliaia di creditori, a cui oggi si aggiunge un altro miliardo e mezzo circa con altri creditori della nuova Amministrazione Straordinaria di Acciaierie d’Italia. 

Un dato è comunque oggettivo: solo su Taranto lo Stato ci ha messo la faccia, rinunziando a una facile chiusura come accadde a Bagnoli e alla sua attuale, infinita, incompleta bonifica, al punto di utilizzare e creare strumenti straordinari e aprendo conflitti con la magistratura, tra di essa e la pubblica amministrazione, con tutto intorno decine, migliaia di altri attori spesso vittime, che poco hanno compreso e poco hanno potuto avere voce in capitolo in questa vicenda più grande di loro. Forse più grande di tutti.

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Taranto e la sua Ilva è stata per tutti, ma soprattutto per chi la ha vissuta e ancora la vive, la storia di un possibile, annunciato fallimento: troppe erano e sono le contraddizioni, le resistenze, i conflitti anche strumentali che la caratterizzano. Nonostante l’impegno di tanti che, pur di provare a correggere la rotta, hanno speso tempo e si sono assunti rischi e impopolarità.

Abbiamo infatti assistito in in questi anni, aldilà della giusta utile e normale dialettica, a scontri e contrapposizioni manichee, spesso meschine e strumentali, tra attori grandi e piccoli, anche istituzionali: potere legislativo contro potere giudiziario, governo centrale contro governi locali, sindacati e lavoratori contro altri sindacati e altri lavoratori, governi entranti contro governi uscenti, ministeri contro ministeri; una delle tipiche caratteristiche italiane, l’incapacità di fare squadra dinanzi a un tema gigantesco e di tutti, dare continuità a interventi di interesse nazionale aldilà della contingenza della politica e delle maggioranze. Un contesto da tifoserie contrapposte e organizzate, dove far valere le parole e le ragioni della verità, dell’equilibrio e della realtà è stato ed è difficilissimo. 

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E quindi Taranto, l’Ilva con il suo maxi processo è stato per oltre un decennio ed è ancora il palcoscenico di una tragedia con tratti da commedia, con tutte le maschere tipiche del caso: il magistrato, il politico, il governatore, il sindaco, il ministro, l’avvocato, l’esperto e lo scienziato, il funzionario pubblico integerrimo o inquietante, il lavoratore, il contadino vessato e danneggiato, il cittadino scontento e avvelenato, i cittadini dolenti e partecipi con le loro associazioni, le associazioni prezzemolo, il giornalista e la giornalista, il voltagabbana, il politico locale, l’affarista e il lobbista. Lascio ai lettori il dare un nome o più nomi a questi personaggi, non è difficile. 

A fonte di tutto ciò la giustizia soprattutto penale non sarà mai in grado di dare la risposta unica e definitiva, anche perché la verità giudiziaria non sempre coincide con la verità storica, ammesso che in simili complesse vicende vi sia una sola verità. Potrà ben punire qualche colpevole di fatti precisi, dare soddisfazione postuma, tardiva e inadeguata a qualche vittima o parente, ma non renderà essa o almeno essa sola giustizia a Taranto. In ogni caso e in attesa che sotto il cielo di Taranto i nuovi e vecchi attori riescano a dare un futuro e una speranza, una lezione forse l’abbiamo imparata o, meglio, ci è stata confermata: nulla è più difficile che governare la complessità e la transizione nonostante la passione e l’impegno spesso di pochi, e non a caso la complessità di fondo della vicenda tarantina è una complessità ecologica. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Giurista ambientale sin dagli studi universitari, legale storico dei Centri di Azione Giuridica di Legambiente, ha ricoperto nel corso degli anni numerosi incarichi pubblici a livello locale e nazionale, da commissario settennale di Arpa Lazio a capo di gabinetto e consigliere giuridico ministeriale in diversi governi. Dal 2014 al 2019 è stato prima sub commissario di governo poi commissario straordinario del Gruppo industriale Ilva Spa. Impegnato tuttora nell’associazionismo ambientalista e nelle esperienze politiche progressiste verdi ed ecologiste, è avvocato a Roma e socio di “Safe Green Sta” www.safegreen.it