La fuga dalle urne soprattutto al Sud e la spaccatura sociale del Paese avrebbero dovuto suggerire alla maggioranza una riflessione accurata prima di riprendere il percorso delle due “riforme-bandiera” di Meloni e di Salvini. Ed invece, come sottolinea il presidente di Eurispes Gian Maria Fara, il governo si concentra su come «esercitare il diritto di guidare il  Paese anziché farlo funzionare». Un’accozzaglia di riforme, a giudizio del cardinale Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, che «rischia di minare la basi del vincolo di solidarietà, presidio dell’unità della Repubblica». Siamo un Paese fermo, nel quale il debito pubblico cresce progressivamente, registra la più bassa occupazione femminile e le più alte criticità nella parità di genere. E, soprattutto, registra l’emorragia di 120 mila giovani che emigrano ogni anno impoverendolo. Un’Italia in cui circa 6 milioni di italiani sono in povertà assoluta e altrettanti faticano ad arrivare alla fine del mese, il 30% dei quali è costretto a ricorrere all’aiuto della famiglia d’origine e altrettanti rinunciano alle cure mediche


◆ L’intervento di ALESSIO LATTUCA, presidente Movimento per la Sostenibilità

È evidente che sia un momento particolarmente difficile, afflitto da un contesto tragico, nel quale accadono cose particolarmente complesse da governare. Posto che sia una stagione che muta in fretta e che non sia in alcun modo il caso di sottovalutare lo psicodramma che si svolge sulla scena europea. Nella quale i cittadini pervasi dal senso di malessere e spaventati, per il futuro che si prospetta buio, portano a un risultato che richiede approfondite riflessioni. E la disaffezione a livelli di guardia manifesta un pericoloso indicatore: la rottura del patto sociale. Si tratta di un gravissimo strappo, con il quale sarebbe ragionevole confrontarsi accelerando il dibattito pubblico con l’obiettivo di considerare le ragioni per le quali il Paese si ritrovi al di sotto delle medie e sia perfino fanalino di coda dell’Europa a due velocità. Al riguardo  sarebbe utile leggere in modo più consapevole i risultati del voto europeo, che registra la più massiccia astensione e un tremendo numero di schede bianche, segno evidente che è venuta meno la fiducia dei cittadini.  

Ed invece il governo tira dritto, ignora gli elettori e accelera sulle sue riforme: l’autonomia è stata approvata alla Camera con i tempi contingentati e al Senato va avanti il premierato. L’incoerenza tra le due riforme e quanto emerge dalle elezioni europee sono giocoforza destinate ad accentuare i mali evidenziati dal voto di domenica 9 giugno: la crisi della rappresentanza e la spaccatura sociale del Paese. Il buon senso avrebbe dovuto consigliare alla maggioranza di riflettere (prima di riprendere l’esame del premierato e dell’autonomia differenziata) sull’esito delle elezioni europee, che ha registrato una fuga dei cittadini dalle urne, e in particolare una vera e propria diserzione degli elettori al Sud. Tutte ragioni che richiedono chiarezza e, soprattutto, nel merito, obbligano a rimuovere il ricorrente equivoco, utilizzato strumentalmente come alibi dai governi nazionali, secondo il quale l’Italia sarebbe sempre stata ultima e che il ritardo non dipenderebbe dal governo in carica. In un Paese stremato è insopportabile che si stia votando su forme di governo e assetti istituzionali mentre non si affrontano le ragioni per le quali l’Italia è ferma; nel quale il debito pubblico cresce progressivamente, registra la più bassa occupazione femminile e le più alte criticità nella parità di genere. E, soprattutto, registra l’emorragia di 120 mila giovani che emigrano ogni anno impoverendo il Paese. 

Sono tutti elementi, questi, che obbligano a tenere nel dovuto conto l’assenza di speranza che emerge dai dati mai smentiti: a partire dalla ricerca pubblicata da Gian Maria Fara (Eurispes) secondo la quale il Paese esprime un progressivo disagio sociale: circa 6 milioni di italiani in povertà assoluta e altrettanti che faticano ad arrivare alla fine del mese, il 30% dei quali è costretto a ricorrere all’aiuto della famiglia d’origine e altrettanti rinunciano alle cure mediche. Tutti fattori che mettono in chiaro la fragilità del Paese e che inducono il presidente di Eurispes Fara ad invitare il governo a «far funzionare l’Italia e non solo ad esercitare il diritto di guidare il Paese che gli è stato affidato con le elezioni». Serissime considerazioni che hanno indotto anche i vescovi a esprimere preoccupazione e che dovrebbero spingere il governo a “governare” piuttosto che vanificare il proprio tempo alla ricerca di pericolose scorciatoie per modificare la Costituzione. Il che – come affermano illustri costituzionalisti – potrebbe condurre all’unico prevedibile esito nefasto: l’autocrazia elettiva. 

“O la va o la spacca” dichiara Meloni: una triste affermazione. La premier si assume, infatti, la responsabilità di scommettere con una posta che non è sua. Dovrebbe sapere che gli italiani, fino a prova contraria, non sono suoi e che, giocoforza, le sue parole inducono a chiedere cosa significa giocarsi il tutto per tutto senza considerare quali siano le conseguenze di queste scelte. Ed allora quali sono le ragioni di un linguaggio non appropriato al ruolo? È probabile “banalmente” che si stia combinando un pasticcio, giacché fare una riforma costituzionale a maggioranza non solo non è giusto ma, come da esperienze passate, porta anche male. La sua maggioranza non rappresenta il Paese: la percentuale con la quale il partito della Meloni avrebbe, a suo dire, votato per il premierato rappresenta appena il 27% del 50% dei votanti che si sono recati alle urne. Numeri reali che è bene avere sempre presenti. E non è casuale che la scommessa sul “cosiddetto premierato” e sull’autonomia differenziata − “lo spacca Paese e la secessione dei ricchi” − sia stata “bocciata sonoramente” anche dalla Conferenza episcopale, che non ha lesinato giudizi negativi in merito allo stravagante quanto anacronistico calcolo (dei leghisti) rappresentato dall’autonomia differenziata: «Timori soprattutto per la sanità», «Diritti civili e sociali vanno garantiti in maniera uniforme», per non condurre l’Italia direttamente alla catastrofe. Si tratta di diffuso sconcerto e non è casuale che il cardinale Zuppi avverta: «quell’accozzaglia di riforme rischia di minare la basi del vincolo di solidarietà, che è presidio dell’unità della Repubblica», e che poi aggiunga: «ci preoccupa qualsiasi tentativo di accentuare gli squilibri già esistenti tra territori, tra aree metropolitane e interne, tra centri e periferie». 

Esibizione delle bandiere regionali alla Camera dei deputati dopo l’approvazione dell’Autonomia differenziata

È un affondo delle due riforme cardine, quello dell’arcivescovo di Bologna e presidente della Cei nel corso dell’assemblea dei vescovi. A proposito del premierato egli ha sottolineato: «Gli equilibri istituzionali vanno toccati sempre con molta attenzione. E non è un caso che Zuppi inviti la politica a tenere presente lo spirito della Costituzione, scritta da forze politiche non omogenee che però avevano di mira il bene comune. Il presidente della Cei ha ricordato le affermazioni del Consiglio episcopale permanente che «ha indicato la legge elettorale come uno dei primi banchi di prova». Il governo ha il dovere di spiegare come redistribuire la ricchezza per una transizione giusta, che non pesi esclusivamente sui più fragili (e non su quella parte della società che ha realizzato una sterminata ricchezza), su come orientare gli extra profitti realizzati dai player dell’energia fossile e dalle banche, su come eliminare le disuguaglianze, le disparità, le differenze di genere, su come affrontare il tema della denatalità e il problema dell’istruzione: elemento indispensabile per migliorare la capacità competitiva del Paese. 

In definitiva occorre rivolgere lo sguardo verso un’Europa più attenta a garantire uguali diritti, a tutti in ogni paese. Con le opportune riforme, posto che gestire un’Europa con 36 componenti sarà davvero difficile se non cambiano le regole. Occorre, pertanto, eliminare l’unanimità a maggior ragione nel momento in cui stanno bussando alle porte altri 10 paesi oltre a Ucraina e Moldavia. Sono problemi concreti che richiedono risposte e, possibilmente, soluzioni, per sedurre i giovani, affinché i giovani possano comprendere come l’Europa unita sia il loro “destino”. In definitiva l’opinione pubblica si aspetterebbe non solo risposte e soluzioni ma anche qualche forma di contrizione per gli errori compiuti sin qui e testimoniati dalla percentuale elevatissima di astenuti, mentre al contrario è costretta ad assistere alla protervia con la quale viene gestita la “durezza dei tempi che corrono”. La “questione”, al contrario, impone coscienza e consapevolezza sull’effettiva realtà dei fatti, oltre a un effettivo equilibrio tra politica e giustizia sociale. Infatti, come prevede l’art. 49 della Costituzione, i cittadini dovrebbero fruire di una politica costruita sulla solidarietà. Si tratta evidentemente di una scelta ambiziosa che al momento sembra remota. Essa dovrebbe indurre tutti a considerare che è proprio nello sconforto e nel disinteresse collettivo che si insinua la zona grigia e il potere più spregiudicato che, talvolta, riesce persino a farsi legittimare “democraticamente”, come insegna la storia italiana ed europea. © RIPRODUZIONE RISERVATA

È presidente di Confimpresa Euromed, amministratore delegato Confidi per l’impresa e direttore generale Cofidi Scrl. Imprenditore agrigentino, si batte da anni contro il rigassificatore di Porto Empedocle (sua città natale), che definisce un “progetto folle”, a pochi passi dalla Valle dei Templi, a ridosso della casa di Luigi Pirandello in contrada Kaos.