Il progetto dei super club archiviato 50 ore dopo l’annuncio, con una nota diffusa alle due di notte: in mezzo, spettacolari stroncature del mondo politico, delle istituzioni del calcio internazionale, del tifo e perfino di calciatori e tecnici. Il calcio vive di riti e miti e chi lo gestisce dovrebbe saperlo. L’elemento più detestabile è il tradimento del merito sportivo, la partecipazione a un campionato come diritto acquisito e non frutto della vittoria sul campo. Il cerino acceso è rimasto ad Andrea Agnelli: «Andiamo avanti, c’è un patto di sangue tra noi, abbiamo il 100% di possibilità di successo», aveva dichiarato all’house organ del cugino Elkann. Chissà che ne avrebbe detto l’Avvocato di un nipote così lungimirante e avveduto…


L’analisi di MARCO FILACCHIONE

¶¶¶ È stata una vicenda breve e interamente notturna, come le storie di Gotham City, in cui i protagonisti irrompono in scena per poi dileguarsi nei vicoli stretti e bui. Il lancio della Superlega, il campionato gestito in proprio da 12 grandi club (6 inglesi, 3 italiani e 3 spagnoli), destinato a segnare la nuova era del calcio-spettacolo-business, si è trasformato rapidamente in un flop colossale. Annunciato attraverso un comunicato alla mezzanotte di domenica 18 aprile, il progetto è stato archiviato 50 ore dopo, con una nota diffusa mercoledì 21, alle due di notte: in mezzo, una spettacolare (quella sì) sequenza di stroncature, da parte del mondo politico, delle istituzioni del calcio internazionale, del tifo e perfino di calciatori e tecnici, di solito poco inclini ad esporsi. 

Vale la pena di ricordare che lo spettro della Superlega non si è materializzato negli ultimi giorni, ma vaga negli ambienti del calcio europeo da anni. Semmai, è stato accelerato dalla lunga stagione del Covid, che ha ulteriormente prosciugato le casse dei grandi club, già sofferenti dopo anni di spese spericolate. Un campionato ristretto ai top club avrebbe dovuto garantire entrate più cospicue (diritti televisivi, sponsor, ecc.) rispetto a quelle assicurate oggi da campionati nazionali e coppe europee. Per i loro piani di investimento, ma soprattutto per coprire i buchi attuali, le dodici società fondatrici, che nei piani dovevano diventare quindici, avrebbero ricevuto un mega prestito da JP Morgan, pari a 3,5 miliardi. 

È il progresso bellezza, assicuravano i fautori della Superlega. Tanto che il presidente del Real Madrid Florentino Perez, una delle anime del progetto, in una intervista televisiva allargava il campo della grande riforma. «I giovani dai 16 ai 24 anni non sono più molto interessati al calcio. Per loro le partite sono troppo lunghe». E allora, per compensare la ormai risaputa “attenzione a breve termine” dei millennials, si studiano soluzioni rivoluzionarie, come ridurre il minutaggio delle gare e la possibilità di dividerle in tre tempi. E comunque, ha detto Perez, «la cosa attrattiva è che le grandi giochino tra di loro».

Il modello di riferimento? Lo sport americano, quello a circuito chiuso della Nfl e dell’Nba. Il problema, però, è che il calcio vive di riti e miti non paragonabili ad alcuna altra realtà e chi lo gestisce dovrebbe saperlo. Così, la levata di scudi si è manifestata dopo poche ore dall’annuncio, unendo le tifoserie della Premier League, a partire proprio da quelle dei club fondatori della Superlega, attraverso i canali social, ma anche “in presenza”, come i supporter del Chelsea riuniti davanti a Stamford Bridge. E poi gli addetti ai lavori: dall’ammutinamento dei giocatori del Liverpool («non la vogliamo e non vogliamo che succeda»), ai due tecnici più rappresentativi, Guardiola («non è sport quando non c’è relazione tra sforzo e successo») e Klopp («mi piace il fatto che chiunque possa guadagnarsi la Champions»).

Una poderosa spallata alla Superlega è arrivata senza dubbio da Boris Johnson. Spinto dal fiuto politico o sinceramente contrario, il premier inglese si è subito detto disposto a prendere qualsiasi provvedimento per impedire lo scisma. Il che, insieme al pugno duro di Uefa e Fifa, con conseguente minaccia di immediata estromissione dei dodici club da campionati e coppe europee, ha rapidamente disintegrato il fronte dei fondatori. Il fuggi fuggi dei club di Premier League è cominciato con l’annuncio del ritiro del Manchester City, a cui ha fatto seguito quello dei cugini dello United. L’Arsenal si è addirittura cosparso di cenere: «Abbiamo fatto un errore e ce ne scusiamo». Stessi toni da parte di John W. Henry, proprietario del Liverpool: «Chiedo scusa a tutti i tifosi, ai giocatori, alla squadra». La retromarcia di Chelsea e Tottenham ha completato il quadro. 

Persa la componente inglese, largamente maggioritaria, il progetto era sostanzialmente morto. In Spagna, l’irriducibile Perez ha dovuto incassare il pentimento di Atletico Madrid e Barcellona. In Italia, l’Inter si è sganciata per tempo, mentre il Milan, il cui ad Gazidis si era speso con entusiasmo per la nuova creatura, non ha potuto che prendere atto. 

Infine la Juve. Anzi, Andrea Agnelli. In tutta questa vicenda è forse quello che ne esce peggio. Quando già era cominciata la fuga degli alleati, garantiva imprudentemente in una intervista a Repubblica e Corriere dello Sport: «Andiamo avanti, c’è un patto di sangue tra noi, abbiamo il 100% di possibilità di successo». Da parte sua, proprio su patti e lealtà aveva già scoperto il fianco: «Andrea è la delusione più grande – lo ha attaccato il presidente dell’Uefa Alexander Ceferin −. Ho parlato con lui sabato, mi ha detto che quelle sulla Superlega erano solo voci, poi ha spento il telefono. È fuggito dall’associazione che presiedeva (la Eca, che rappresenta le squadre di calcio in ambito europeo, ndr), non ho mai visto nulla di simile nella mia vita».

La vicenda è per ora archiviata, ma è probabile che in tempi più favorevoli il progetto venga rispolverato, con opportune modifiche e aggiustamenti. Nessuno può illudersi (o, a seconda delle opinioni, temere) che il calcio rinunci a capitalizzare al massimo il suo impatto mediatico. I fatti di questi giorni, tuttavia, consolano gli inguaribili che si ostinano a considerare il pallone soprattutto uno sport. Perché l’elemento più detestabile della Superlega è stato proprio il tradimento del merito sportivo, il fatto che la partecipazione a un campionato sia un diritto acquisito e non il frutto di una vittoria sul campo. Con tutte le loro derive affaristiche, in fin dei conti gli organi del calcio internazionale, Fifa e Uefa in primis, non hanno mai completamente seppellito il merito. ♦ © RIPRODUZIONE RISERVATA

Marco Filacchione, romano, ha esplorato ogni periodicità del giornalismo scritto, lavorando per mensili, settimanali, quotidiani e agenzie di stampa. Ha cominciato negli anni Ottanta con “Il Messaggero”, poi ha seguito da inviato per anni Giro d’Italia, Tour de France e classiche del Nord per il mensile “Bicisport”. In seguito si è occupato di calcio con il mensile “Newsport” e ha fatto parte della redazione del “Corriere dello Sport”, di cui è tutt'ora collaboratore. È autore di una decina di volumi di carattere sportivo.