Rendere meno visibili alcuni tweet o profili (senza che gli autori, e neppure i lettori, ne siano in alcun modo consapevoli) e la censura di notizie sgradite all’amministrazione di Washington è una pratica che si è intensificata durante la pandemia da Coronavirus. Ma era cominciata ben prima. Nel 2015 il computer del figlio di Joe Biden, Hunter, viene dimenticato stranamente in un’officina di riparazione dei pc: all’interno ci sono files molto compromettenti sui rapporti tra l’allora vice di Obama e Burisma, una società energetica ucraina, censurati dal social media. Su come combattere il virus Sars-Cov2, la censura degli scienziati sul lockdown «ha causato enormi danni ai cittadini e alla scienza, favorendo l’adozione di scelte repressive e dannose». Fin dove arriva la libertà concessa sui social media? «La Silicon Valley, malgrado l’afflato universalista, è intrinseca allo Stato federale e fornisce all’intelligence una quantità formidabile di dati». Torneremo a un dibattito trasparente?


L’analisi di LAURA CALOSSO

Una delle prime pagine del New York Post sullo scandalo dei “Twitter files”; sotto il titolo, Elon Musk ha comprato il social media per 44 miliardi di dollari [credit foto Olivier Douliery / Afp]
IN QUESTI GIORNI si torna a parlare di Covid e qualcuno agita lo “spettro” del lockdown. Ma è servito? Ha avuto effetti positivi sulla pandemia? No. E qualcuno l’aveva detto a suo tempo, ma era stato oscurato. Possibile che solo oggi si scopra che il lockdown ha prodotto più danni che vantaggi? Se avete la pazienza di leggere questo articolo, saprete come sono andate le cose. A chiarirle è la vicenda inquietante dei “Twitter files”. Di cosa si tratta? Notizie rilevanti occultate dalla piattaforma social, acquistata di recente, per 44 miliardi di dollari, da Elon Musk.

Perché la vicenda è rilevante? È importante perché rappresenta la prova pratica che i social sono in grado di influire sull’opinione pubblica non solo pubblicando contenuti, ma soprattutto non pubblicandoli. Un caso emblematico riguarda il figlio del presidente Joe Biden. Secondo quanto è emerso sin qui, qualche anno fa, il computer di Hunter Biden sarebbe stato portato a riparare e non sarebbe più stato ritirato. La faccenda è strana perché, come rivelato il 14 ottobre 2020 dal New York Post, a pochi giorni delle elezioni presidenziali americane, nel pc erano state trovate mail e altri contenuti piuttosto scottanti. Avrebbero potuto danneggiare il padre (allora era vicepresidente di Barack Obama e delegato a seguire la crisi Ucraina dopo l’annessione della Crimea) che nel 2015 avrebbe appunto incontrato — ci sono le prove del fatto che il figlio abbia organizzato il meeting — un uomo d’affari ucraino,  Vadym Pozharsky, al tempo consulente del consiglio di amministrazione di Burisma, società energetica ucraina. Hunter Biden era stato reclutato dalla società e l’ipotesi è che gli fosse stato dato un incarico proprio per usare la sua influenza sull’amministrazione americana, o almeno questo è ciò che si legge in una mail di Pozharsky indirizzata ad Hunter Biden. Il dato potrebbe non essere rilevante se non fosse che Joe Biden, all’epoca, esercitò davvero pressioni sul governo di Kiev in modo da ottenere il licenziamento di un procuratore anti-corruzione, Viktor Shokin, impegnato, tra le altre cose, a indagare proprio su Burisma. Joe Biden ha sempre negato tutto. Secondo la ricostruzione del New York Post (che avrebbe ricevuto il materiale da Rudolf Giuliani, avvocato di Trump, tramite il titolare del centro di riparazione che avrebbe fatto copia del contenuto del computer), il pc sarebbe poi arrivato all’Fbi.

Perché questa notizia clamorosa non è emersa quando è uscita, ovvero nei giorni precedenti le elezioni del 2020? Ecco qui il punto: le piattaforme social, Twitter tra queste, l’avrebbe oscurata adducendo la paradossale motivazione che non rispettava gli standard definiti per le notizie. Insomma, si voleva accertare la veridicità e quindi si censurava. Si era addirittura fatta circolare l’ipotesi che si trattasse di opera dei russi a favore di Trump. Falso. La notizia, esattamente la stessa uscita alla vigilia elettorale, si è rivelata vera. La certezza sulla verità emerge proprio oggi con lo scandalo dei “Twitter files”, ma intanto, chi al tempo aveva condiviso i post del quotidiano, era stato bloccato. Censura e “shadow banning” (rendere  meno visibili alcuni tweet o profili, senza che gli autori ne siano in alcun modo consapevoli, e neppure i lettori). Perché? Si ipotizza che lo staff di Twitter fosse permeabile alla cultura Dem e pertanto agevolasse quella parte. Secondo Matt Taibbi, un giornalista che si sta occupando del caso «la decisione è stata presa ai più alti livelli dell’azienda ma senza che lo sapesse l’amministratore delegato Jack Dorsey». E vero? Mah. Il nodo è proprio qui: la questione rilevante probabilmente non riguarda l’approccio ideologico dei dipendenti delle piattaforme social, ma il fatto che proprio l’Fbi abbia chiesto di nascondere la vicenda Hunter Biden, pur sapendo che si trattava di verità, avendo appunto il computer di Hunter Biden per le mani. Dunque? Siamo davanti a un colpo di stato?

«Il mondo democratico americano ha usato pratiche illiberali e anti-democratiche per contrastare gli avversari, nascosto dietro le insegne della democrazia e del liberalismo […]. La differenza tra i regimi democratici e tutti gli altri non è tanto nel momento elettorale, quanto nel fatto che nei primi si governa con la legge e negli altri con l’arbitrio. Per le piattaforme è il momento di passare dal dispotismo che pretende di essere illuminato alla democrazia liberale» ha scritto Stefano Feltri il 22 dicembre scorso su Domani il quotidiano di De Benedetti [leggi qui nota 1].

Ecco, dopo tutte queste considerazioni, torniamo al tema citato all’inizio: il lockdown. Ebbene, Jay Bhattacharya, epidemiologo di fama internazionale, ha denunciato di essere stato oscurato da Twitter proprio su richiesta del governo statunitense. Dopo un incontro recente con Elon Musk ha rilasciato alcune dichiarazioni sconvolgenti secondo le quali sarebbero state le agenzie governative che hanno scelto cosa censurare «ma anche chi censurare, perché in contrasto con i diktat di salute pubblica decisi da loro. Abbiamo depositato le prove in tribunale» [leggi qui nota 2], ha dichiarato Bhattacharya, professore a Stanford e fra i tre firmatari della Great Barrington Declaration (documento che dimostrava l’esistenza di una strada alternativa al lockdown e alle restrizioni in periodo pandemico) [leggi qui nota 3]. Dal dialogo con Elon Musk sarebbe emerso che «c’è una mole enorme di documenti da analizzare. Non uscirà tutto, e non subito. Ho passato gran parte del tempo sul mio caso, cercando di capire perché sono stato messo in ‘black list’ e oscurato attraverso lo ‘shadow ban’».

Il professore non si lamenta per il danno subito personalmente con la generale e sistematica censura «ma per il dibattito scientifico in generale: ha causato enormi danni ai cittadini e alla scienza, sostenendo l’adozione di policies estremamente repressive che forse non sarebbero state prese, come la chiusura delle scuole. Se nel 2020 avessimo potuto avviare un dibattito aperto sul tema, le scuole non sarebbero state chiuse. Non solo: milioni di persone nel mondo non hanno mai saputo che lockdown, obblighi e restrizioni non erano l’unica soluzione, come invece è stato fatto credere».

In un tweet del 31 dicembre scorso, Battacharya scrive: «L’ironia dei governi occidentali che si lamentano della censura cinese della scienza e della politica covid … Che ne dite di adottare tutti una politica di libertà di parola e di ritorno all’illuminismo scientifico?» [leggi qui nota 4].  E in un tweet del 1 gennaio 2023 aggiunge: «La tirannia medica canadese. I leader scientifici e politici che hanno fatto sì che tutto ciò sia accaduto, sono dalla parte sbagliata della Storia e saranno ricordati male dai futuri studenti di medicina e sanità pubblica, indipendentemente dal numero di premi che si daranno». [leggi qui nota 5].

Queste parole dovrebbero far sobbalzare tutti dalla sedia. Il lockdown ha prodotto danni economici, sociali, psicologici di enorme portata. Oggi sappiamo che a nascondere i rischi è stato chi, successivamente, si è prodigato per diffondere la bontà di soluzioni a scatola chiusa. E guai a metterle in dubbio. Ecco, c’è una cosa che dobbiamo chiedere al nuovo anno: la possibilità di tornare a dibattiti scientifici trasparenti che mettano fine a una pericolosa e disgustosa caccia alle streghe. 

Per chiudere, un’ultima considerazione sulle piattaforme social e sul web. La ricaviamo da un articolo di Dario Fabbri sulla rivista di geopolitica “Limes”, numero 10 del 2018, “La rete a stelle e strisce”: «Internet è il versante virtuale del primato statunitense nel mondo. La Silicon Valley, malgrado l’afflato universalista, è intrinseca allo Stato federale e fornisce all’intelligence a stelle e strisce una quantità formidabile di dati» [leggi qui nota 6]. «La Silicon Valley fornisce all’Nsa e alla Cia innumerabili dati per spiare alleati e antagonisti»,  spiegava “Limes” nel numero dedicato al web «ma non ha creato la tecnologia di cui dispone, non può esistere senza gli investimenti di Washington, non può sottrarsi alle imposizioni dell’amministrazione federale». Oggi più che mai, teniamone conto. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Scrittrice, giornalista e traduttrice, laureata in Scienze Politiche e in Lettere, Culture moderne comparate, Letteratura tedesca. Ha lavorato come giornalista e addetta stampa. La carriera di scrittrice è iniziata con una menzione di merito al Premio Calvino, edizione 2008/2009, e il primo romanzo "A ogni costo, l'amore" pubblicato da Mondadori nel 2011. Il giornalismo d’inchiesta è la sua passione. Lavora nel mondo dell’editoria e per la Rai.