Sotto il titolo, manifestazione dei familiari delle vittime nel Palazzo di Giustizia di Torino; qui in alto l’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, per il quale al processo di Novara è stato chiesto l’ergastolo (credit Epa / Steffen Schmidt)

In un’Italia con molti decessi di lavoratori collegabili all’esposizione all’amianto, non si è fatto molto di più che tardive procedure di accertamento. Nel Comune piemontese, invece, l’inchiesta è andata a fondo, portando ora alla richiesta di ergastolo — la prima per un ex industriale — per una strage di lavoratori (la Procura ha individuato 392 vittime casalesi, e altre ancora in altre zone del Paese). Sul banco degli imputati il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny, 75 anni, quarta generazione di una dinastia tra le più note del suo Paese, già proprietario di Eternit. A Casale Monferrato i decessi di operai o ex lavoratori dello stabilimento Eternit sono avvenuti in continuazione, per anni, senza che se ne sapesse il motivo. Ma Schmidheiny, secondo l’accusa, sapeva. Sapeva della correlazione tra esposizione continuativa all’amianto e cancro. Che poi non ha colpito solo operai che lavoravano per lui, ma anche cittadini che vivevano nei pressi dello stabilimento e quindi hanno respirato le particelle cancerogene disperse nell’aria. Per questo e altro — una campagna di disinformazione che sarebbe stata promossa negli stabilimenti dell’amianto — è stato indicato dall’accusa il dolo eventuale, non solo l’omicidio plurimo colposo


L’articolo di ALBERTO GAINO

LA RICHIESTA DEI PUBBLICI MINISTERI di condannare all’ergastolo Stephan Schmidheiny, ultimo patron della multinazionale Eternit, è stata fragorosa, per quanto sia caduta nel silenzio in cui in Italia, e in parte del mondo occidentale, è avvolta la questione amianto. Prova ne è che le stesse industrie farmaceutiche non investono nella ricerca scientifica sul tumore – il mesotelioma maligno – oggi incurabile e tuttavia responsabile di una parte consistente dei 120 mila decessi, nei soli ultimi trent’anni, causati dall’esposizione all’amianto di lavoratori e di cittadini che vivevano nei pressi degli stabilimenti in cui si lavorava l’amianto, ma per questi ultimi gli accertamenti sono quasi sempre stati tardivi, quando ci sono stati. Fa eccezione il caso di Casale Monferrato. A Casale Monferrato si è avviata dagli anni ottanta una ricerca epidemiologica, ormai giunta ad oltre tremila casi di morte, che ha consentito di quantificare con esattezza il disastro umano dell’amianto e che ha reso la città piemontese un unicum nel nostro paese su cui si sono puntati nel corso dei precedenti decenni i riflettori dei media, come se il disastro dell’amianto fosse circoscritto a questa città di 35 mila abitanti. Nel Siracusano vi sono stati almeno centinaia di decessi anch’essi provocati dall’amianto trattato nello stabilimento locale dell’Eternit, senza che i riscontri scientifici siano stati adeguatamente attenti nel corso del tempo. Si fece un processo, tuttavia, dopo la condanna in primo grado di otto dirigenti locali per omicidio colposo, la Corte d’appello di Catania concluse per l’innocenza degli imputati con una sentenza motivata da una paginetta illeggibile per l’indecifrabile calligrafia del giudice che la scrisse. Un risarcimento di spiccioli per i familiari di ogni vttima completò la convinzione che non si poteva ottenere altro.

Così è andata per gran parte dei luoghi di insediamento dell’industria privata dell’amianto, tranne che a Casale Monferrato, dove, dopo due giudizi di merito conclusi con pesanti condanne ai vertici della multinazionale, solo la Cassazione ha dichiarato nel 2014 prescritto il reato di disastro ambientale doloso indicando che, semmai, si sarebbe dovuto processare Stephan Schmidheiny (il barone belga Louis de Cartier morì prima della sentenza di appello) per omicidio. Senza specificare se doloso o colposo. La pubblica accusa ha individuato 392 vittime casalesi e un’altra manciata fra Napoli, Cavagnolo, in provincia di Torino, e Reggio Emilia, dove vi erano altre sedi Eternit. Ancora una volta è stato il caso esemplare della città piemontese a sorreggere la contestazione più grave al magnate svizzero che nel 1976 acquisì il pacchetto di controllo della multinazionale e ne assunse la guida: l’omicidio volontario sotto il profilo del dolo eventuale, imputazione che al termine del dibattimento ha portato i pm a concludere con la richiesta del carcere a vita per un industriale, e che industriale: l’ultimo erede di una delle più potenti dinastie dell’amianto nel mondo novecentesco.

Anche quest’atto rappresenta un unicum. Per rendersi conto come ci si sia arrivati si deve ripartire dalla realtà di Casale Monferrato, dove per l’intero secolo scorso i decessi di lavoratori Eternit furono numerosi, ma sino agli anni 70 ne dava conto la sola bacheca aziendale in cui ricorrevano i manifesti mortuari di lavoratori e di ex lavoratori dello stabilimento. Tanti, troppi, però non era dato sapere per quale motivo. Morivano e basta. Stephan Schmidheiny invece sapeva. Era al corrente che le ricerche scientifiche evidenziavano un nesso di causa fra l’esposizione continuativa all’amianto e il cancro. Dal 1972 un dossier Iarc (l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) aveva informato la comunità scientifica e l’imprenditore svizzero aveva i suoi consulenti nella comunità scientifica e costoro lo aggiornavano puntualmente sullo stato dell’arte della ricerca scientifica. A sua volta Schmidheiny li attivava perché smentissero l’autorevolezza degli studiosi indipendenti e dello Iarc. Una gran brutta storia di cui una pagina fondamentale fu scritta a Neuss, in Germania, presso il laboratorio del professor Klaus Robock, nel giugno del 1976. Stephan Schmidheiny vi radunò i maggiori dirigenti della multinazionale di cui aveva appena assunto il controllo. Li volle là per informarli a loro volta che la produzione di manufatti contenenti amianto (dalle onduline ai tubi) esponeva i lavoratori al rischio di ammalarsi di cancro. Detto ciò, il meeting servì per chiarire che l’imprenditore svizzero intendeva rilanciare la produzione e l’utilizzo dell’amianto. Non vi erano alternative, almeno per la fabbricazione di tubi, core business Eternit, e piuttosto ci si doveva attrezzare per sostenere quella rinnovata politica aziendale. Come, si è chiarito molto tempo dopo, quando si è compreso pure all’esterno del gruppo dirigente perché il meeting si era svolto “a casa Robock”.

Nell’autunno del 1976 fu messo a punto e distribuito alle direzioni dei vari stabilimenti (inclusa quella dell’Eternit di Casale Monferrato) un manuale di disinformazione, detto Ausl 76, destinato a contrastare proteste di lavoratori, sindacati e di eventuali contestatori dell’amianto: comunità locali, ambientalisti, giornalisti. Vi si sosteneva il contrario del dossier Iarc. Il professor Robock assunse un ulteriore ruolo quando negare l’evidenza non fu più possibile (occorsero comunque anni): arginare la questione della salute dei lavoratori indicando una soglia di esposizione che potesse dichiarare l’amianto non pericoloso. Persino nei lavori di discussione della legge che, nel 1992, bandì l’amianto in Italia, ci si fermò a lungo su quella prospettiva. Il dolo eventuale significa nel caso concreto di Stephan Schmidheiny che l’imprenditore svizzero, nel 1976 a Neuss, accettò il rischio che lavoratori alle sue dipendenze potessero ammalarsi e morirne. Per questo motivo i pm del processo novarese ritengono che meriti la condanna a vita. Primo industriale nella storia giudiziaria italiana accusato di aver cagionato consapevolmente, attraverso le sue scelte imprenditoriali, così tante morti.

Un terzo unicum, su cui gli avvocati di Schmidheiny si sono già scagliati nel corso del dibattimento, consiste nella particolarità delle vittime per cui si celebra il processo: su 392 l’80 per cento non ha mai lavorato per Schmidheiny. Si tratta di vittime ambientali: vivevano o lavoravano nei pressi dello stabilimento e dei magazzini Eternit, respirando la polvere che ne fuoriusciva. Altrove, dalla Società Italiana Amianto di Grugliasco, in provincia di Torino, all’Isochimica di Avellino si sono registrate stragi di lavoratori ma non vittime ambientali. E sempre per lo stesso motivo, da Nord a Sud, da Sud a Nord: con pochissime eccezioni i territori non sono mai stati coinvolti dalle lotte dei lavoratori chiusi nelle rispettive fabbriche e, fatalmente, anche l’attenzione per le vittime ambientali è stata contenuta o non c ‘è proprio stata. A cominciare dalla mancata sensibilizzazione di medici di base e ospedalieri: quante diagnosi sono state perdute rispetto all’esposizione all’amianto?

Il magistrato Raffaele Guariniello ha indagato a lungo e portato a processo dirigenti e proprietario della multinazionale svizzera Stephan Schmidheiny (credit La Presse / Marco Alpozzi)

Anche per questi aspetti Casale Monferrato è diventata un unicum in Italia: i medici locali sono stati la prima categoria professionale a schierarsi, a loro volta i sindacati (almeno parte di essi) hanno cercato di coinvolgere il territorio, la consapevolezza di pochi è diventata di un’intera città. E quelle 392 parti lese sono un macigno che i vivi hanno posto sulla strada di Schmidheiny e della magistratura che lo deve giudicare. Per una parte delle vittime ambientali, uccise dal polvere di amianto, che l’azienda otteneva dalla frantumazione dei residui di produzione e metteva a disposizione dei casalesi, non sarà semplice ricondurre la responsabilità della loro morte al magnate svizzero. Ma l’unicum di Casale Monferrato, per tutte le ragioni evidenziate, ha prodotto nella testa dei pm anche il solo unicum giudiziario compatibile con una richiesta di condanna altrettanto eccezionale per un industriale. La nemesi è servita. Vedremo fino a che punto aspettando la sentenza di primo grado, prevista per la tarda primavera o l’inizio dell’estate.© RIPRODUZIONE RISERVATA

Giornalista di lungo corso, collaboratore a “il manifesto” nei primi anni Settanta, dal 1981 cronista prima a “Stampa Sera”, poi a “La Stampa”, nella sua carriera si è occupato soprattutto di cronaca giudiziaria. Tra i suoi libri “Falsi di stampa: Eternit, Telekom Serbia, Stamina” (2014) e “Il manicomio dei bambini: Storie di istituzionalizzazione” (2017).