Raccontare la realtà attraverso le storie delle persone. Nei “colloqui sociali”, l’ascolto di chi affronta in povertà le difficoltà della vita è l’occasione per una cronaca diversa di ciò che sta succedendo in tante famiglie e in tante solitudini. Una “cronaca di contatto”, non filtrata dalla sociologia o dalle statistiche. Il cronista, in occasione della distribuzione dei pacchi alimentari al Polo di via Cottolengo a Torino, ascolta migranti che vivono sette-otto nella stessa stanza, cercano lavoro, hanno il sogno di studiare, vogliono passare il guado tra sopravvivere e vivere. E che sanno cogliere l’occasione di un cambiamento in meglio, come le donne che a Torino si sono emancipate. Storie che raccontano di povertà e di attese, storie che sono lezioni di dignità
L’articolo di ALBERTO GAINO
NEI GIORNI SCORSI ho fatto un’esperienza particolare: ho partecipato ai colloqui con le persone che incontro nei locali del Polo alimentare di via Cottolengo a Torino quando vengono a ritirare il pacco di pasta, farina, latte, caffé, a volte di olio e tonno, verdure e carne in scatola che il Banco alimentare fornisce all’Ufficio Pastorale Migranti della Diocesi e all’associazione Camminare Insieme per girarli a noi volontari e, attraverso le nostre mani, a chi ha un Isee non superiore – ma siamo elastici – ai 6000 euro l’anno. Parliamo di circa 500 euro al mese con cui vivere, a volte anche in 7 o 8. Con quel denaro pagano l’affitto di topaie piene di muffa o di appartamenti più decorosi ma molto piccoli. I “colloqui sociali”, una volta l’anno, servono a capire se e quante famiglie hanno migliorato la loro situazione. Qualcuna c’è riuscita, vi sono poi esempi di straordinaria emancipazione femminile in contesti culturali in cui le donne, ai loro paesi, non riescono ad alzare gli occhi mentre qui, se il marito non lavora, lo cacciano di casa. La maggioranza è inchiodata alla povertà assoluta o quasi. Il covid, la crisi economica, da ultimo il peso dell’inflazione hanno espulso i lavoratori più precari e isolati. I migranti sono stati i primi ad esserne stati colpiti. Anche nella salute e nel diritto alle cure.
Idriss (nome di fantasia come tutti quelli che compariranno in questo articolo) è arrivato quattro anni fa dal Ghana attraverso il deserto, la Libia, i campi di concentramento che là sono stati allestiti anche con i fondi assicurati dal 2017 dai governi italiani succedutisi, allo scopo di fermare i migranti in Africa e utili economicamente ai trafficanti e ai signori della guerra, figure che spesso coincidono da quelle parti. Poi il mare su un barcone e lo sbarco in Italia, un centro di accoglienza e nel caso di Idriss il trasferimento al Nord, in provincia di Torino, in altro e più piccolo centro di accoglienza. Il giovane è solo in Italia ma con l’aiuto del volontariato è riuscito a trovare un lavoro, ad affittarsi una casa e ripartire nella vita. E’ fragile, parla poco e comunica ancor meno. Si sente depresso perché, appena trovato il lavoro e casa, ha perso entrambi: il tempo del covid per lui è stato devastante, era stato assunto per ultimo nella sua ditta, è stato licenziato per primo. Nel frattempo si era iscritto ad una scuola per diplomarsi perito informatico. E la scuola l’ha tenuto attaccato alla vita. Per il resto si arrabatta con lavoretti di giornata e si ripara la notte in un dormitorio gestito da un’associazione “interculturale”. Per fortuna, nel dormitorio, può cucinare. A vent’anni si può sopravvivere e basta, con gli orizzonti che scendono rasoterra e spariscono? La vera povertà ha il suo sguardo triste, di chi è ricaduto per terra dopo aver sperato e fatto piccoli progetti. A noi ha chiesto di sostenerlo nella ricerca di un lavoro qualsiasi. A scuola va bene e la scuola è la sua tenue speranza.
Anche Amina ha vent’anni e da sette è in Italia con la madre e una sorella più giovane. Ha lasciato il Marocco con rimpianto. Ha un bel sorriso sotto il suo berretto bianco che le incornicia il volto al posto del velo. Un sorriso dolce e a volte ironico. Che appare di adulta quando risponde alle domande sul padre disoccupato, come mai ha perso il lavoro? come vanno le cose con lui in casa? Risponde con sguardi che comunicano l’inutilità di quegli interrogativi. Dai suoi quasi monosillabi si chiarisce che lei e la sorella sono nate da genitori avanti con gli anni, dopo che avevano avuto altri figli. L’Isee riporta l’età del padre: ha superato i 65 anni e da contadino che era al suo paese a Torino era diventato muratore. Alla sua età dovrebbe andare in pensione ma non può andare: non ha i contributi. Spesso non glieli hanno versati i datori di lavoro. La madre di Amina, più giovane di oltre dieci anni, potrebbe lavorare ma non sa l’italiano. Le due figlie più giovani sono le sole ad avere studiato. Vanno a scuola grazie al reddito di cittadinanza che alla loro famiglia non dovrebbe essere tolto alla fine dell’anno: il padre è un’ultrassessantenne e da metà della sua vita risiede in Italia. Le figlie hanno la speranza di diventare italiane, uscire dalla povertà assoluta una volta diplomatesi e vivere in una vera casa: dividono con gli anziani genitori la stessa stanzetta per dormire, mangiare, lavarsi, vestirsi. Se il reddito di cittadinanza dovesse essere abolito in toto le due ragazze dovrebbero invece lasciare la scuola in vista del diploma e cercare lavoretti qualsiasi per sopravvivere. Private del futuro.
La scuola è il possibile volano di riscatto per giovani italiani nati in Italia ma che non sono italiani di passaporto e non hanno diritti. È la prima fotografia delle cause della povertà in Italia. E di queste la più semplice da affrontare: basta una legge che il Parlamento latita ad approvare, frenato da una destra che si trincera dietro l’affermazione di un’identità patriottica ottocentesca, mentre oggi continueremmo a perdere ogni anno almeno 400 mila italiani all’anagrafe senza il milione e duecentomila ragazzi, a volte persino diventati trentenni che aspettano spesso sulla porta con i loro diplomi e lauree. Quando si capirà che non abbiamo futuro noi senza i migranti di ieri e di oggi?
La seconda fotografia che esce dall’album di freschi ricordi dei miei “colloqui sociali” è quella di Fatou, donna senegalese di 48 anni e madre di 5 figli nati per la nostalgia che la legava al marito emigrato in Italia da tempo e che nel suo paese di origine tornava a rivedere la moglie e i loro ragazzi nel periodo delle ferie dal lavoro di grafico. Fatou è ancora bella, di una bellezza appena sfiorita dalla fatica quotidiana di dover fare i conti con la povertà: era cuoca in una gastronomia, ha dovuto lasciare per il figlio più piccolo, il solo nato qui, che aveva cominciato regolarmente a parlare e d’improvviso si è immutolito. Autismo, è stata la diagnosi. Alla scuola materna non l’hanno preso. “Ma siete in graduatoria” gli hanno comunicato. “Aspettate”. Aspettano da troppo. Il marito di Fatou, nel frattempo, si era messo in proprio per cercare di driblare la crisi post-pandemia, pure lui, che lo stava sacrificando sul lavoro. Ma quello di grafico che disegna batik non sta funzionando. Troppe spese. Il mercato è saturo di batik. Il marito di Fatou è un vecchio sognatore e sta perdendo colpi immerso nelle difficoltà del mercato del lavoro creativo cui aspirava da sempre. E Fatou, con il figlio più piccolo a casa e a cui deve badare lei, non riesce più a reggere il peso della famiglia da sola. Si è organizzata nella sua piccola cucina a preparare torte salate e dolci da vendere a chi le voglia comprare. Sul cellulare ne mostra orgogliosa le foto. Le sue torte sono ricamate con ricordi del Senegal e la creatività che ha portato in cucina appoggiando sugli strati di pasta sfoglia scie di crema e cioccolato. La casa però è molto piccola e deve servire a sette persone.
Nella povertà si precipita quando cade anche l’ultimo sostegno economico e al reddito di cittadinanza la famiglia di Fatou non ha mai pensato. Lei lo comunica con una smorfia che dice anche Noi vogliamo solo poter lavorare, Nel suo caso significa che tutti devono fare il loro dovere. Anche la scuola che non ha accolto il suo bambino autistico, forse con la scusa ispirata dal silenzioso tam tam Prima gli italiani. Per fortuna anche in quella famiglia i giovani sono una risorsa: i due più grandi si sono diplomati all’alberghiero e già lavorano, come lavapiatti. Vorrebbero fare gli aiuto cuochi, la mamma li frena saggiamente: “Si comincia così nella ristorazione” . E sorride ancora congedandosi, nonostante tutti i suoi guai, testimoniati da un Isee da far perdere il sonno. Quel giorno mi sono portato a casa la sua lezione di dignità.
La terza e ultima fotografia della povertà al di là delle statistiche e degli studi incoraggia a pensare che la contaminazione fra doveri e diritti, quando coinvolge gli ultimi, può essere un fattore molto importante. Me l’ha raccontata Fatima seduta accanto al suo papà di 67 anni che ne dimostra venti di più. Fatima è stata la prima della sua numerosa famiglia (sette fra fratelli e sorelle, oltre ai genitori contadini) ad emigrare in Italia. “Sono venuta con mio marito nel 1999, quando ancora potevi prendere un aereo e non un barcone. Qui ho fatto la mia unica figlia e ho mandato al diavolo mio marito: non voleva lavorare. Io ho sempre lavorato, in un’impresa di pulizie. Dopo di me sono venute le mie sorelle più grandi. La prima con le sue tre figlie e l’altra con i suoi problemi di testa. Le tre donne sono diventate cittadine italiane e se la cavano senza quasi dover contare sul lavoro degli uomini di famiglia. Quelli che sono restati sono i tre fratelli che le hanno raggiunte a Torino insieme con i genitori, che erano analfabeti in Marocco e sono restati analfabeti anche in Italia: non scrivono nella loro lingua nemmeno un po’, papà firma con il suo nome, mamma con la croce. Fatima dice che non c’è niente da fare per loro: vivono con la sorella più grande e i tre fratelli, di cui uno fa l’uomo di fatica al mercato di Porta Palazzo e l’altro il meccanico in cerca di assunzione. Fatima si è caricata la sorella con i problemi di testa. Fatima è un’autentica forza della natura. Non si è scoraggiata di fronte ai dinieghi e alle resistenze della nostra burocrazia: ha ottenuto qualcosa in termini di sostegno e, dopo il fallimento dell’impresa di pulizie che l’aveva assunta ormai tanti anni fa, continua ad andare per condomini a lavare le scale. “Quando mi chiamano, e mi chiamano, sono svelta”. Senza tante parole, Fatima mi ha insegnato come ci si può arrangiare onestamente e proiettare in un futuro migliore la piccola figlia e le nipoti, grazie soprattutto alla solidarietà familiare declinata al femminile. © RIPRODUZIONE RISERVATA