A cominciare da Gronchi, i presidenti della Repubblica hanno cominciato a giocare ruoli sempre più politici, sempre più interventisti. Sono stati modificati così i lineamenti di una Repubblica sempre meno parlamentare e sempre più — nei fatti — presidenziale o semi-presidenziale. Ma senza strutture costituzionali adeguate di supporto e di garanzia. Con un Parlamento autoridottosi a marmellata scompostamente movimentista, con una classe dirigente  sempre più improvvisata e incolta


Il commento di VITTORIO EMILIANI

Alcide De Gasperi, segretario della Dc, omaggia Luigi Einaudi neoeletto presidente della Repubblica

IL RUOLO DI GARANZIA del Presidente della Repubblica venne disegnato da una Costituente che appariva, giustamente, preoccupata di un possibile ritorno dell’uomo forte al comando. Anche per questo nella prima elezione a De Gasperi venne preferito Einaudi che prometteva una interpretazione “notarile”, liberale, del ruolo. Come puntualmente avvenne nonostante le pressioni della Dc e della Chiesa di Pio XII. Ricordo bene, essendo entrato in politica allora, al Ginnasio Liceo, nel 1953 al tempo della dura polemica sulla legge-truffa, le “prediche inutili” di Einaudi, la prima all’insegna del “conoscere per deliberare” che ci indicavano la strada maestra per attuare nella pratica quotidiana i principi di quello Stato laico e liberale che l’Italia non aveva più avuto dopo l’affossamento dello Statuto Albertino che aveva parificato col passo avanti decisivo dell’editto di Voghera del 1849 tutti i cittadini del Regno di Sardegna includendovi ebrei, protestanti, ecc. Editto sostanzialmente tradito nello spirito dal trasformismo politico, soprattutto da Depretis in poi. Sui padri costituenti poté agire la minaccia anche militare, del separatismo siciliano incoraggiato dagli Inglesi che, in testa Winston Churchill, vedevano nella Resistenza del Centro Nord (giellista, socialista, cattolica e persino monarchica in Piemonte e soltanto tardivamente comunista) la minaccia di un movimento che poteva rivendicare il ruolo di una Italia co-belligerante e non sconfitta senza rimedio di sorta, al pari della Germania quasi. 

Vittorio Valletta, in ginocchio al centro; al posto di guida della Topolino Gianni Agnelli, suo successore

Nella spartizione decisa a Yalta all’Italia era toccato il ruolo di Paese di frontiera del blocco atlantico verso Est, quindi molto delicato. Tanto da venire investita copiosamente dagli aiuti del Piano Marshall. Che furono di grande entità anche se trovarono l’industria di Stato — con Sinigaglia nella siderurgia e Mattei nell’energia — più pronta ad utilizzarli efficacemente grazie anche ad un ministro finanziario, Vanoni, democristiano che in gioventù era stato socialista. Contro questi sviluppi poco poteva ormai Churchill sconfitto dai laburisti di Attlee nelle prime elezioni postbelliche. La Fiat del resto godeva di un regime di monopolio garantito dalla politica che Alfa Romeo e Lancia potevano soltanto scalfire nel segmento di mercato delle auto sportive e di lusso. L’auto di massa era garantita alla Fiat dal monopolio protetto dallo Stato e che soltanto molti anni dopo sarebbe stato messo in discussione. Quella stessa Fiat di Valletta avrebbe ottusamente stroncato nella crisi degli Olivetti il primo computer da tavolo messo a punto dalla equipe di Mario Chou, morto in uno strano incidente autostradale, relegandoci così alla retroguardia internazionale del settore di maggior avvenire in campo tecnologico

Tutto questo mentre i presidenti della Repubblica, a cominciare da Gronchi, pretendevano di giocare ruoli sempre più politici, sempre più interventisti modificando i lineamenti di una Repubblica sempre meno parlamentare e sempre più — nei fatti — presidenziale o semi-presidenziale. Ma senza strutture costituzionali adeguate di supporto e di garanzia. Con un Parlamento autoridottosi a marmellata scompostamente  movimentista, con una classe dirigente sempre più improvvisata e incolta. Che può anche progettare di far salire al Colle la responsabile dei servizi segreti. Brava, bravissima e però con quella fondamentale controindicazione. Mi tocca di essere d’accordo con Matteo Renzi e però altre posizioni non potrei, non saprei sostenere. Conoscere per deliberare: i problemi, non i dossier personali, mi si permetta la malizia finale. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Direttore onorario - Ha cominciato a 21 anni a Comunità, poi all'Espresso da Milano, redattore e quindi inviato del Giorno con Italo Pietra dal 1961 al 1972. Dal 1974 inviato del Messaggero che ha poi diretto per sette anni (1980-87), deputato progressista nel '94, presidente della Fondazione Rossini e membro del CdA concerti di Santa Cecilia. Consigliere della RAI dal 1998 al 2002. Autore di una trentina di libri fra cui "Roma capitale Malamata", il Mulino.