“La Polonia è il confine morale e materiale dell’Occidente” ha detto Giorgia Meloni, parlando con i giornalisti, a conclusione della sua recente visita a Varsavia dove ha incontrato Mateusz Morawiecki, primo ministro polacco. Meloni e Morawiecki si conoscono bene. Il leader polacco è del partito “Diritto e giustizia”, di estrema destra, che fa parte del gruppo Conservatori all’Europarlamento, di cui Giorgia Meloni è presidente. Ma la Polonia è veramente un “confine morale”? Per alcune organizzazioni umanitarie, a cominciare da Amnesty International, è ben altro: è un Paese con un governo illiberale, reazionario, che limita i diritti civili, che controlla i media, addirittura xenofobo. Non un confine, quindi, semmai una faglia


L’articolo di ANNA MARIA SERSALE

E’ IL 20 FEBBRAIO, il giorno prima di andare a Kiev Giorgia Meloni a Varsavia incontra il premier polacco, Mateusz Morawiecki, capo di una coalizione di destra, xenofoba, reazionaria e illiberale, che governa la Polonia con sistemi autocratici. Le libertà civili fondamentali sono ridotte, il dissenso soffocato e i media controllati. Le minoranze e gli omosessuali subiscono gravi discriminazioni, mentre aumentano emarginazione e disuguaglianze. E’ la denuncia di Amnesty International.

Nonostante ciò, la premier italiana suggella il rapporto di amicizia con Morawiecki e, parlando con i giornalisti, dice: “La Polonia è il confine morale e materiale dell’Occidente”. Probabilmente Meloni si rifà a una frase di Giovanni Paolo II, che però fu pronunciata in un momento storico totalmente diverso, quando la Polonia combatteva per il riconoscimento dei diritti e della democrazia. Parole che ora, invece, lasciano perplessi. Ma di quale confine morale parliamo? Le organizzazioni umanitarie, Amnesty International in testa, non fanno che denunciare episodi di violenza e oscurantismo avvenuti in questi anni. Con l’intervento della polizia anche le battaglie delle donne sono state stroncate. L’8 marzo per loro è una giornata all’insegna della più avvilente retorica. Una delle ultime manifestazioni risale al 2021, quando le donne scesero in piazza per la morte di una giovane stroncata dalla sepsi: i medici le avevano rifiutato l’interruzione di gravidanza, benché il feto fosse malformato. Ma a livello giudiziario sullo stop all’aborto in Polonia c’è un caso giudiziario ancora aperto. Tra pochi mesi, il 14 luglio, a Varsavia ci sarà la prima udienza del processo contro Justyna Wydrzynska, una delle fondatrici dell’Abortion Dream Team, un collettivo di attiviste che fa campagne contro lo stigma verso le donne che chiedono di abortire. Il collettivo offre sostegno per l’interruzione di gravidanza in modo sicuro (seguendo le direttive dell’Organizzazione mondiale della sanità). Ma Justyna rischia fino a tre anni di carcere per aver fornito pillole abortive a una donna che aveva subito violenza domestica. “Nel 2020 – racconta la donna in attesa di giudizio – una giovane che si trovava in una situazione disperata mi ha chiesto aiuto. Mi ha detto che il marito violento stava cercando di impedirle di abortire. La sua storia mi ha commossa perché era simile a ciò che era accaduto a me”. Secondo molti se Justyna non sarà assolta verrà stabilito un pericoloso precedente che potrà essere utilizzato anche da altri governi che cercano di comprimere o sopprimere il diritto di aborto.

La recinzione metallica eretta alla frontiera con la Bielorussia per cacciare i profughi

Da anni il regime polacco è sotto osservazione da parte delle principali organizzazioni europee, non solo per avere attaccato i diritti civili. Il leader Morawiecki verso il quale la Meloni manifesta amicizia e sintonia di intenti è alla guida di un governo che respinge i profughi in fuga dalla fame, dalle guerre e ora dai disastri del terremoto che ha devastato Siria e Turchia. A bussare alle porte della Polonia per chiedere asilo sono soprattutto siriani e afgani. Ma entrano solo i profughi ucraini, gli altri no. Le guardie di frontiera li respingono con il fucile spianato. Dunque, prevalgono politiche xenofobe. Tanto che il governo polacco ha innalzato un muro nel cuore d’Europa, alla frontiera con la Bielorussia per cacciare i profughi, presentati all’opinione pubblica come una “minaccia”, nonostante si tratti di famiglie stremate, con donne, vecchi e bambini. Senza cibo, senza acqua, senza riparo dal gelo, senza medicine. Respinte da agenti armati che compiono rastrellamenti e che costantemente presidiano il muro, lungo più di 180 km.

E’ il nuovo muro della vergogna, una trappola per i disperati che fa pensare a Berlino. Una “barriera” di cemento e filo spinato frutto della propaganda sovranista, che paventa una possibile “invasione” di migranti. Soprattutto nelle zone di confine c’è un clima di paura, violenza e xenofobia. Ne hanno fatto le spese gruppi di afgani e siriani, bloccati dal muro e abbandonati in condizioni disumane, cosa che, attraverso immagini satellitari, è stata documentata da attivisti e volontari. Era l’estate del 2021 e la Corte per i diritti umani intervenne con un provvedimento, dando istruzioni alle autorità polacche affinché fornissero assistenza. Ma arrivò settembre e la Polonia non aveva alzato neppure un dito. Anzi, dichiarò lo stato di emergenza al confine con la Bielorussia, limitando così l’accesso ai giornalisti e alle Ong, che avrebbero potuto documentare gli abusi.

Profughi della rotta balcanica ammassati davanti al reticolato del confine polacco

Ma c’è di più. Una parte dei migranti entrata nel territorio polacco è finita in due centri di detenzione, per una decisione arbitraria delle autorità, senza valutazioni sui singoli casi. Uno dei centri è a Wedrzyn, dove chi vi entra non ha più identità perché chiamato con un numero come nei lagher nazisti, dove si subiscono offese di natura razzista, privazioni e maltrattamenti, dove le guardie accolgono dicendo “benvenuti a Guantanamo”. In celle di soli otto metri quadrati sono state ammassate 25 persone, in totale violazione degli standard europei. Molti profughi sono stati denudati e sottoposti a violenze, anche con scariche di pistole elettriche durante perquisizioni corporali umilianti, in strutture sovraffollate e prive di igiene. Inascoltati i richiami dell’Europa per il rispetto dei diritti umani. Anche le sanzioni non sono servite.

Morawiecki è al governo dal 2017. Ha contribuito alle leggi che (dal 2015) hanno limitato l’indipendenza della magistratura, ridotto lo stato di diritto e condizionato la libertà dei media. Politiche sostenute dal partito conservatore e nazionalista Prawo (PiS, Diritto e Giustizia) che ha la maggioranza di governo e che spinge verso forme sempre più autoritarie; certamente non paragonabili a quelle di Putin o Xi Jimping, ma non per questo meno preoccupanti. Politiche molto simili a quelle di Viktor Orbàn, altro amico della Meloni, il quale in un famoso discorso si scagliò contro l’Europa delle “razze miste”. Polonia e Ungheria, del resto, insieme a Repubblica Ceca e Slovacchia fanno parte della vecchia alleanza di Visegrad, che ha come base fondante l’identità nazionale e una visione della società ancorata ai vecchi schemi del patriarcato, Dio, Patria, Famiglia, bloccando l’emancipazione delle donne.

Giorgia Meloni ospite della trasmissione Voice Anatomy

In Polonia nelle maglie della polizia possono finire tutti coloro che non corrispondono allo standard sociale disegnato dai poteri governativi. Per le indagini è stata istituita anche una sorta di super Procura, che può avere accesso ai dati più riservati. Nel mirino alcuni diritti civili, soprattutto quelli riguardanti le donne. Per l’aborto le norme non tengono in alcun conto la volontà di chi chiede l’interruzione di gravidanza (permessa solo nei casi di pericolo di vita, stupro o incesto, a volte difficilmente dimostrabili nei tribunali della Polonia). La parità è lontana, aumentano le disuguaglianze e ci sono discriminazioni nei confronti delle persone Lgbtqia+ per il loro orientamento sessuale, spesso vittime di comportamenti omofobi. Anche se a livello locale sono nate delle cosiddette Lgbti-free zone, ciò ha contribuito a ghettizzare i gruppi e ad aumentare la condanna sociale. La verità è che il governo polacco difende fermamente l’identità di genere. Principio condiviso dalla nostra premier Meloni, che dell’identità di genere fa una questione di orgoglio, come ha dimostrato nel discorso che fece in Spagna, rivolgendosi alla platea di Voice dicendo: “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana”. Visione condivisa dal presidente polacco Andrzej Duda che in una recente intervista al nostro Tg2 dopo avere parlato dei nuovi possibili equilibri all’interno dell’Europa e della necessità di una politica più orientata ai popoli e alle nazioni, in una battuta ha dichiarato che sottoscrive quanto detto dalla Meloni, affermando: “Sono Andrzej, un uomo, un padre, un cristiano”.

Dunque, orgoglio di genere. E niente femminismo, ma <neoliberismo femminista> come lo definisce Marcella Corsi, professore ordinario di Economia politica alla Sapienza e coordinatrice di Minerva, Laboratorio sulle diversità e le disuguaglianze di genere. Corsi ha più volte sottolineato come in Europa i partiti della destra neoliberista e di estrema destra, anche nell’ambito di campagne contro i migranti, si siano serviti di concetti apparentemente femministi. E senza combattere le forme di discriminazione hanno compresso sempre di più le pari opportunità. In pratica, si è trattato di una degenerazione del concetto stesso di femminismo, in nome di una presunta “vera femminilità”, fondata sul mito delle “buone madri” e delle “signore per bene”, e sulla difesa di una rinnovata idea di “nazione” che chiude le frontiere agli “altri”, chiunque essi siano. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Giornalista professionista, ha lavorato al “Messaggero” dal 1986 al 2010. Prima la “gavetta” in Cronaca di Roma, fondamentale palestra per fare esperienza e imparare il mestiere, scelto per passione. Si è occupata a lungo di degrado della città, con inchieste sugli abusi che hanno deturpato il centro storico. Dal 1997 ha lavorato alle Cronache italiane, con qualifica di vice caposervizio, continuando a scrivere. Un filo rosso attraversa la sua carriera professionale: scuola, università e ricerca per lei hanno sempre meritato attenzione, con servizi e numerose inchieste.