
Con l’Inflation Reduction Act — l’Ira —, il decreto legge firmato da Biden prevede una spesa di 750 miliardi di dollari in dieci anni, di cui 369 miliardi per «rendere più verde l’America». Un’accelerata inattesa al di qua dell’Atlantico. Un intreccio tra Stato, politica industriale, fisco e sussidi pubblici che spaventa l’Europa per le conseguenze “protezionistiche” ai danni dei nostri prodotti e del nostro apparato industriale. Che fine farà l’industria automobilistica francese e quella tedesca? E la componentistica “automotive”, dove l’Italia ha ancora molto da dire? Un intreccio inedito e, soprattutto, “eretico” rispetto al liberismo imperante dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso. Pensiamo a come sarebbe tutto più interessante se di questi argomenti si discutesse anche nel congresso del Pd e nel governo italiano (al netto — ohibò — della caccia al cinghiale in città)
Questo editoriale apre il numero 33 del nostro magazine distribuito nelle edicole digitali dal 23 dicembre 2022
L’editoriale di IGOR STAGLIANÒ
ORA CHE IL carro davanti ai buoi è stato certificato anche da Letta — la carta dei valori la deciderà il nuovo segretario —, il capitolo congresso Pd può essere chiuso qui. Il dibattito su quel che conta e su ciò che vorranno essere nella sinistra e nella società italiana si farà dopo aver esaurito il casting televisivo nel Big Talk per un mesetto ancora (salvateci almeno le feste di fine anno). Ora che Zelenski torna da Washington a Kiev con i Patriot che Biden esitava a dargli — e che Putin ha già dichiarato di poter aggirare con l’upgrade dei suoi missili —, il capitolo guerra per l’intero 2023 è già scodellato davanti al mondo. L’Europa si attrezzi a pagarne le conseguenze economiche e sociali, come se i prezzi del caro energia non fossero già salatissimi per occupazione e bilanci famigliari; come se il Qatargate non stesse bruciando dosi massicce della credibilità europea, lesionata nelle fondamenta dalla guerra tra Russia e Stati Uniti, sulla pelle del popolo ucraino e in casa nostra.
Se così stanno le cose potremmo fermarci già qui, salutarci e far gli scongiuri per l’anno che arriva. Le cose — come sempre — sono però più complicate e conviene guardarne qualcuna più da vicino. Prendiamo, ad esempio, l’Inflation Reduction Act — l’Ira —, decreto legge firmato da Biden in agosto. Con la sua decisione il Presidente americano prevede una spesa di 750 miliardi di dollari in dieci anni, di cui 369 miliardi per «rendere più verde l’America». Un’accelerata inattesa al di qua dell’Atlantico. Tanto da mettere l’Ira “made in Biden” — derivato “benevolo” dell’“America First” di Trump — al primo posto dell’agenda del Presidente francese Macron nella sua visita a Washington a inizio dicembre.

Perché? L’obiettivo dichiarato da Biden è di associare la questione climatica alla politica industriale statunitense, attraverso l’intervento diretto dello Stato, agendo sia sulla domanda che sull’offerta. Per capirci: un americano che acquista un’auto elettrica riceve un sussidio di 7mila e 500 dollari solo se l’auto è interamente fabbricata negli Usa. In altri termini: risorse americane, per prodotti americani, con posti di lavoro americani. Un intreccio — inedito, da decenni, a quelle latitudini — tra Stato, politica industriale, fisco e sussidi pubblici che spaventa l’Europa per le conseguenze “protezionistiche” ai danni dei nostri prodotti e del nostro apparato industriale. Che fine farà l’industria automobilistica francese e quella tedesca (quella italiana è già ridotta al lumicino)? E la componentistica “automotive”, dove l’Italia, invece, ha ancora molto da dire? Un intreccio inedito e, soprattutto, “eretico” — è stato osservato — rispetto al liberismo imperante dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso.
Avete letto qualcosa su questi argomenti nella stampa italiana? Poco (nei circuiti specializzati) o niente (nel copia incolla del mainstream). Cinquant’anni di dure lezioni di politica fiscale, industriale e sociale, impartite a destra e a manca, con particolare impegno nella cospicua parte di mondo occupata dall’Europa occidentale, hanno modellato l’economia globale in una soffocante egemonia politica ed economica. Con conseguenze drammatiche nelle diseguaglianze sociali e nella crisi climatica. Tutto finito? Contrordine e inversione ad U? Non esattamente. La crescita e il benessere diffusi nel mondo occidentale nei “trenta gloriosi” anni 1945-1975 sono stati altro — una concezione predatoria nei confronti del Pianeta —, e altro resteranno. Nessun ritorno a John Maynard Keynes, ci viene spiegato. Il più influente economista del XX secolo puntava tutto su welfare e ammortizzatori sociali. Oggi “i produttivisti” alla Dani Rodrik — presidente dell’International Economic Association, fra gli ispiratori dell’Ira di Biden — puntano sulla creazione di posti di lavoro a cui dedicare le risorse pubbliche orientate.
Se Stato, politica industriale, fisco e sussidi punteranno al superamento dell’economia fossile o meno, in America o alle nostre latitudini, dipenderà molto da noi. L’Europa ha fatto da battistrada nel mondo su energia e clima, il tema dei temi, ancora di recente con la “carbon tax” sui prodotti di importazione. Oggi perde terreno e si scolla in fila indiana. E se l’Europa (e Macron e Scholtz e Meloni) si farà paralizzare ancora per il 2023 nella trappola della guerra per il gas, il declino della manifattura europea (e quindi italiana) avanzerà inesorabile, schiacciata dalla concorrenza spietata dei prezzi energetici americani. Avete seguito il ragionamento sin qui? Pensate a come sarebbe tutto più interessante se di questi argomenti si discutesse anche nel congresso del Pd e nel governo italiano (al netto — ohibò — della caccia al cinghiale in città). Persino del Qatargate i contorni sarebbero subito più chiari, lungo la carovana delle sue navi gasiere cariche di Gnl. Per adesso fermiamoci qui. Buon Natale e buon anno nuovo a tutti. © RIPRODUZIONE RISERVATA